"LA STAMPA"

11 Febbraio 1995

Costruirò a Napoli il Faro del Mediterraneo

di Gioacchino de Chirico

Roma, Predrag Matvejevic’ è saldamente radicato nella cultura mitteleuropea con lo sguardo di studioso e di ricercatore appassionatamente rivolto verso i problemi, la gente, la cultura e la storia dei popoli del Mediterraneo. Da due mesi l’Italia ha la fortuna di poterlo annoverare tra i suoi docenti universitari. L’Università statale la Sapienza di Roma lo ha nominato secondo la formula della "chiara fama". Lo incontriamo nel suo piccolo ufficio a villa Mirafiori, sede della facoltà di Lingue.

A "Galassia Gutemberg", Matvejevic’ annuncerà il prossimo sabato la nascita di una fondazione diretta insieme con Michele Capasso, per "osservare" la realtà mediterranea, dalla storia, alla cultura, all’economia.

Professore, si è recato a Sarajevo, allo scadere dei mille giorni di assedio. Che notizie ci porta?

"Sono tornato a Sarajevo per la seconda volta da quando la città è in stato d’assedio. La prima risale a circa 6 anni fa. Molto è cambiato. Prima la gente sperava, nell’Europa principalmente, poi dalle visite che ricevevo a Parigi mi sono accorto che il sentimento prevalente era quello della rabbia, contro un’inerzia percepita chiaramente. Ora c’è solo rassegnazione: sono tutti stanchi di sperare, di disperare e di ribellarsi. Quando sono arrivato, ho avuto la tristissima esperienza di non poter riconoscere gli amici che mi erano venuti a prendere all’aeroporto. I loro occhi sporgenti portavano l’impronta di quello che avevano visto. Erano magrissimi, con pochi denti e senza capelli".

E l’impatto con la città?

"Con la guerra nella ex Jugoslavia è stato possibile coniare un nuovo termine, quello di "urbicidio". La guerra non uccide solo persone, uccide anche le città. A Sarajevo tutte le latrine sono bloccate. C’è poca acqua. Le fogne congelano e si spaccano. Oggi, la vita a Sarajevo ha inizio con un terribile puzzo di escrementi. La gran parte della popolazione ha perduto il proprio equilibrio emotivo e psicologico.

Il 70% dei bambini sono traumatizzati dalla guerra. In città può capitare di fare pochi passi in una direzione ed essere strattonati per la manica della giacca da qualcuno che ti dice di non passare perché ci sono i cecchini. Gli intellettuali possono essere di aiuto. Recentemente, a Napoli, abbiamo lanciato un manifesto di solidarietà, invitando gli scrittori del Mediterraneo a premere per trovare una soluzione pacifica alla crisi bosniaca"

Per lei il riferimento al Mediterraneo è molto importante, non sembra però che governi e istituzioni abbiamo una sensibilità analoga.

"Si, è vero. Non esiste una politica del Mediterraneo né da parte dei Paesi che vi si affacciano, né, in genere, da parte della Comunità europea. Tutto ciò è piuttosto pericoloso. La dice lunga sul modo in cui questa Europa sta prendendo forma: dimenticando le sue origini, come qualcuno che crede di poter crescere prescindendo dall’infanzia".

Ma quali sono o dovrebbero essere i presupposti di una politica del Mediterraneo?

"Il Mediterraneo non va considerato come un insieme coerente. Sono molti i conflitti che lo lacerano. L’immagine idilliaca di un mare di scambi e di incontro tra genti e culture va certamente abbandonata. L’unico momento in cui si può azzardare un’ipotesi del genere è quello dell’impero romano. Bisogna tener presente che questo spazio così ricco di storia è stato vittima del suo proprio storicismo. Questa patria del mito ha sofferto per mitologie che essa stessa ha generato. Oggi, in molti luoghi, la retrospettiva prevale sulla prospettiva. Esiste certamente un pensiero mediterraneo, ma esso rimane prigioniero di alcune costanti che occorre mettere in discussione. Il Mediterraneo ha affrontato con ritardo la questione della modernità e, inoltre, non ha avuto modo di vivere esperienze autentiche di laicità. Tutto questo costituisce una zavorra molto ingombrante".

Come si può intervenire per recuperare il tempo perso e dipanare una matassa che appare piuttosto intricata?

"In primo luogo è molto importante che vi siamo dei punti di osservazione costante di questa realtà. Per ora mi sembra che non ce ne siano, in Italia almeno. Eppure nessun Paese è immerso in questo mare come il vostro. Ma mi sento di poter dire che l’Italia mostra di avere a cuore sole se stessa. C’è un’esagerata introspezione politica che certamente serve e ha il suo valore, ma che priva il Paese di sguardi rivolti verso l’esterno".

Spera che le cose cambino?

"Ho visto che c’è voglia di fare.

D’altra parte, sono convinto che questa prospettiva di dialogo e di espansione commerciale e culturale è l’unica opportunità che ha l’Italia. Non verso il Nord Europa, dove ormai i giochi sono stati fatti. In Italia, però, devo dire di aver trovato tanta dispersione. Per questo motivo credo sia utile la nascita di un osservatorio che possa diventare laboratorio. Sfortunatamente non credo che Venezia e Genova, due città che io amo, due vecchie superpotenze del Mediterraneo, possano più ambire al ruolo di capitali di questo mare, ma Napoli sì. Barcellona, ad esempio, è molto ambiziosa: ha un Istituito del Mediterraneo che dispone di mezzi che non sono neanche immaginabili qui in Italia. La Francia sta sentendo la mancanza di una politica mediterranea e Marsiglia si sta candidando per diventare il punto di riferimento".

Di quali questioni dovrebbe occuparsi l’osservatorio?

"C’è tanto da fare. Basti pensare al degrado ambientale, all’inquinamento, al comportamento senza regole di molti imprenditori selvaggi, ai movimenti demografici mal controllati. Inoltre, c’è tanta corruzione, in senso proprio e in senso figurativo, ci sono troppo localismi. Certamente non è il Mediterraneo l’unico responsabile di questa situazione. Ma queste cose vanno osservate. E se da questo punto di osservazione riuscissimo a fare anche una diagnosi, allora potremmo dire che una parte significativa dei nostri obiettivi sarà stata raggiunta".