"IL DENARO"

5 dicembre 1998

È il momento del grande esodo

di Michele Capasso

Casablanca, dicembre 1998. Tahar è un giovane studente di Fez. Piange e si dispera. Era un suo amico il marocchino morto attraversando il Mediterraneo, diretto sulle spiagge della Spagna. Ogni giorno, ogni ora, questo mare inghiotte vite, speranze, ambizioni. È un vero bollettino di guerra: un tunisino muore nei pressi di Pantelleria; intere famiglie di Curdi, Albanesi e gente del Kossovo si disperdono nell’Adriatico. Tra questi donne e bambini. Queste morti pesano sulle coscienze degli artefici di questi loschi traffici, ma pesano allo stesso modo sulle nostre coscienze.

Il canale di Otranto è divenuto il canale delle stragi.

9 febbraio 1998: perdono la vita 5 albanesi nel naufragio di un gommone proveniente da Valona; 1 maggio 1998, in una collisione tra due gommoni, nei pressi dell’isola Saseno al largo di Valona, muoiono 5 albanesi; 23 giugno 1998, muore un traghettatore inseguito da una motovedetta italiana; 25 ottobre 1998, muoiono 6 albanesi per una collisione tra due gommoni al largo di Valona; 26 novembre 1998, 6 clandestini perdono la vita in 2 distinti naufragi. L’odissea di questa gente è infinita. Il ministro degli Interni Jervolino è costretto ad affermare "Avevamo inutilmente sperato che con l’accordo con l’Albania si riducesse non solo l’area dell’immigrazione clandestina, ma soprattutto quella disperata, e invece...". Non fa che chiedere del figlio, non fa che descrivere la moglie per sapere se è viva: Milahin Vuciterna è un superstite dell’ultima tragedia nel canale d’Otranto ricoverato all’Ospedale di Brindisi. È affranto, disperato. Fuggiva con la moglie e il figlio dagli orrori del Kossovo. Milahin non li rivedrà mai più, nessuno trova il coraggio per dirglielo: risparmiati da una guerra ingiusta e infame, il figlioletto Tarik (di appena un anno) e la bella moglie Elvane (capelli ricci e biondi) hanno trovato la morte nelle acque del mare di Otranto. Questa storia è uguale a tante altre. Voglio però descriverla lo stesso. Serve per non dimenticare. Serve per capire che non è più possibile affidarsi al destino. Occorrono azioni politiche precise per evitare morti di innocenti. Milahin è un trentenne di Rahovec, città del Kossovo martoriata dai serbi. Decide di lasciare la sua città il 5 settembre, giorno del primo compleanno del figlioletto. Parte a fine novembre da Durazzo, dopo un lungo viaggio a piedi e su un camion. Insieme con 15 persone si imbarca su un gommone. La notte è fredda e le coperte servono a poco. A metà percorso un forte boato ed il gommone viene invaso dall’acqua, speronato (forse) da uno scafo dei contrabbandieri: uno di quelli lunghi 16 metri, stazza 12 tonnellate, prua rinforzata con lastre d’acciaio, quattro motori potentissimi, mostri che corrono a 45 nodi l’ora, carichi di sigarette e, spesso, di droga. Un piccolo urto con un "mostro" del genere può distruggere un gommone ed i suoi occupanti. Milahin e i suoi compagni sono i malcapitati: si dirigono con quel che resta dell’imbarcazione verso una nave cisterna dell’Agip. Lui sale sulla scaletta, ma un’onda travolge quel che resta del gommone e, con esso, anche la moglie e il figlioletto. Il cadavere di Tarik sta tra le braccia di un giovane carabiniere sulla motovedetta che approda a Brindisi poco prima di mezzogiorno di un sabato di fine novembre. È un misero fagottino avvolto in una lurida coperta che, passando dalle braccia del militare a quelle del medico legale, diventa il fotogramma-simbolo di questa ennesima tragedia sul Mediterraneo. Ho voluto raccontare questa storia per sottolineare quello che da tempo andiamo dicendo: se la Comunità internazionale – in modo particolare i responsabili dei governi dei Paesi industrializzati e quelli dell’Unione europea – non affronteranno con serietà e metodo il problema delle migrazioni nell’area mediterranea, ci troveremo, entro 10 anni, di fronte ad un grande esodo: una tragedia di dimensioni bibliche che vedrà 100 milioni di esseri umani, per lo più giovani, provenienti dai Paesi del Sud e dell’Est del Mediterraneo, riversarsi sulla riva Nord alla ricerca di cibo, pace, lavoro e futuro. Una riva, quella Nord, che sarà popolata solo da vecchi intrappolati in un modernismo apparente che li distoglierà dalle azioni fondamentali di accoglienza e solidarietà. Che fare? Occorre promuovere e attivare il partenariato "alla pari" con i popoli più deboli e indifesi del Mediterraneo. Occorre aiutarli a produrre ricchezza e lavoro.

Ramzi è un giovane algerino da due anni in Italia. Lo incontro sul treno Napoli-Roma. È diretto a Milano. A Napoli viene ogni settimana: accompagna amici provenienti dall’Algeria per ottenere il permesso di soggiorno dal consolato generale algerino di Napoli, l’unico in Italia deputato al rilascio. Non si spiega perché nel suo Paese, ricco di risorse, ogni tecnologia o materiale particolare debba essere importato. "Tempo fa – dice – c’era una fabbrica di pneumatici, venivano fuori imperfetti e perciò l’hanno chiusa. Sfamava 200 persone. Ora i pneumatici sono tutti d’importazione". Questo semplice esempio dovrebbe farci riflettere. Se non esporteremo tecnologia, aiutando gli algerini (e tutti gli altri) a produrre pneumatici ed altri beni di consumo capaci di generare sviluppo ed occupazione, saremo illusi da un falso benessere e costretti a fare i conti con una "bomba umana" che non sarà possibile disinnescare: quella di milioni di persone che, abbandonati a se stessi, non esiteranno a travolgerci. Di questo ne ho parlato con il nuovo Console generale di Algeria a Napoli. È d’accordo con questa tesi, ma, dice "occorre senso del bene comune e buona volontà".