"IL MATTINO"

8 novembre 1998

Condannati alla pace

di Michele Capasso

Venerdì 6 novembre 1998. La prima missione dell’Accademia del Mediterraneo è a Gerusalemme. Dopo i recenti accordi di Wye Plantation, la cultura s’interroga su come aiutare il processo di pace. Avverto, quale direttore generale di questa Istituzione, il peso e la responsabilità nel dover coordinare una riunione così delicata, alla quale partecipano Shimon Peres, Albert Memmi ed altri esponenti della cultura e della politica d’Israele, della Palestina e di altri paesi mediterranei. David Ohana, storico e fondatore del Forum delle culture mediterranee d’Israele, mi convince a visitare Gerusalemme prima dell’inizio pomeridiano dei lavori. Prima tappa il vicino mercato Mahane Yehuda, particolarmente affollato tutti i venerdì. Sono da poco passate le 10. Chi dubita della pacifica coesistenza tra israeliani e palestinesi, tra ebrei, cristiani e musulmani (con tutti i variegati ordini religiosi) dovrebbe venire qui: un intreccio di lingue, culture e fedi che si fonde e confonde in questa parte di città. David Ohana è felice: alle 10 il Governo d’Israele si è riunito per ratificare i recenti accordi americani che prevedono la concessione di parte dei territori occupati alle Autorità palestinesi. Si rallegra perché alcuni giorni fa sono stati ripresi i rapporti tra Israele e Marocco: lui, ebreo-marocchino nato a Ouzda, ritiene questo evento essenziale per la ripresa del dialogo.

Il discorso è interrotto da un boato di eccezionale potenza. Per un attimo, scordandomi dov’ero, ho pensato al Vesuvio. Veniamo scaraventati a terra tra banchi di banane, melanzane, verdure, cachi. Il caos è indicibile. Intorno a noi è ressa. Ebrei ortodossi fuggono sostenendo le trecce e i capelli neri: insieme a loro donne, bambini, vecchi, arabi, cristiani, copti, arabo–israeliani, cristiano-etiopici, suore, francescani, copti-egiziani, gente comune. Tutti sono vittime dell’ennesimo attentato terroristico. Decine i feriti, tra le vittime anche i terroristi portatori di morte. Sono giovani pronti a tutto. In genere non superano i 25 anni di età. "Più sono giovani e più sono affidabili" dice David. È questa la caratteristica dei "guerrieri di Allah", non appena vengono congedati dalle guide spirituali che infondono loro la convinzione che essere martiri è il modo migliore per onorare la fede. Ma il fanatismo non è sufficiente a spiegare le azioni di queste "bombe umane". Dietro questa gente vi sono situazioni drammatiche: famiglie poverissime, infanzie trascorse in campi profughi, un’istituzione inesistente, deportazioni. Tutto questo ho visto in questi giorni in Palestina e trasferisco tali sensazioni all’amico David: è frastornato e non sa rispondermi. Urlando di rabbia dice: "Proprio nel momento in cui vengono concessi i territori, per giunta da un governo di destra, questo attentato semina terrore: tutto ciò è assurdo e inspiegabile". E continua: "Quest’azione dimostra che la politica è impotente: se qualcuno ti chiede qualcosa e l’ottiene, perché poi deve ‘ringraziarti’ con un pugno in faccia?" Vicino a noi c’è Shlomo. Aiuta moglie e figlie ad alzarsi. È bianco in volto. Fa il guardiano al museo di Gerusalemme: "Sono un semplice ebreo – dice – che ha votato per Rabin. Voglio solo vivere tranquillamente con mia moglie e le mie figlie. Per questo ho accolto con favore la concessione dei territori ai palestinesi. Ma se questa è la risposta, se questa bomba uccideva la mia famiglia, allora dico che è un assurdo …". Si interrompe e piange. Andiamo via dal mercato ormai invaso da ambulanze, polizia e militari. Ci fermiamo più avanti, nel quartiere Mea Shearim. È come essere tornati dietro nel tempo. Ebrei ultra-ortodossi incartati in abiti e cappelli neri commentano l’avvenimento scuri in volto. Beviamo acqua e zucchero. La paura è stata forte, per lo meno per me. David, da storico e studioso del terrorismo, afferma che queste azioni sono frutto di una logica: la filosofia è impedire la costruzione del processo di pace. Paragona gli attentatori alle Brigate Rosse: "Io li definirei Brigate nere – dice – vogliono cambiare tutto e subito e rifiutano il compromesso". Per questa gente, per ogni Kamikaze che si sacrifica, decine di Yigal Amir, il giovane ebreo che ha assassinato Rabin, sono pronti a minacciare di morte il popolo che, tra gli israeliani, opera per la pace. E per ogni militare di Hamas arrestato dalla polizia palestinese, cento altri palestinesi sono pronti ad assassinare Arafat. Questo popolo vive una contraddizione che lo ha condotto in un circolo vizioso. La pace non si costruisce senza il compromesso e se non c’è il compromesso non c’è pace. Il governo di Netanyhau ha ceduto alle pressioni di Clinton e di Hussein di Giordania: questo circolo vizioso è stato interrotto e la pace è più vicina. Per lo meno fino ad oggi.

Mai come in questo momento le responsabilità della cultura e quelle dell’Accademia del Mediterraneo sono enormi. Discuto di questo con Shimon Peres prima dell’inizio del seminario. È triste. Ricorda quando a Napoli, durante il premio "Liberal" a lui attribuito, la traduttrice confuse "desalinizzazione" con "destalinizzazione" e accenna un sorriso per allentare la tensione. Mi consegna la sua lettera di adesione all’Accademia e vuole commentare l’attentato con un aneddoto: "Alcuni studenti chiedono ad un rabbino, ad un cristiano e ad un musulmano africano quando è che finisce il giorno e comincia la notte. Il rabbino dice: ‘quando è possibile distinguere la distanza tra due alberi’; il cristiano dice: "quando il sole si alza e la notte cala"; il musulmano dice: ‘quando incontri un uomo e una donna, bianchi o neri che siano, e dici ‘tu sei mio fratello e mia sorella’. Io dico che quando israeliani e palestinesi, arabi, musulmani, cristiani, ebrei e esponenti di tutte le fedi e culture potranno vivere sicuri, senza questi attentati allora la notte sarà passata e qui, a Gerusalemme, spunterà l’alba".