"IL DENARO"

27 settembre 1997

Il mare degli architetti*

di Michele Capasso

20 settembre 1997. Volo Napoli-Atene. Leggo la rivista di bordo. Vi è un’attenzione quasi ossessiva nei confronti del Mediterraneo. Ogni momento della nostra esistenza pare possa essere collegato a questo nostro mare. Ma al di là dell’immagine e dell’utilizzo virtuale del Mediterraneo usato sempre come aggettivo, quasi mai come sostantivo, poco o nulla del recente passato è stato fatto in termini di concretezza e di progettualità. Dalle strategie politiche alle iniziative culturali, alle premure imprenditoriali, tanto interesse ha suscitato molta partecipazione, ma anche diversi interrogativi e qualche sospetto.

I tempi lunghi che hanno segnato il farsi della civiltà mediterranea si comprimono oggi in indagini veloci, in sintesi rapide, in proiezioni istantanee. È forse il caso di tornare a domandarsi "perché" il Mediterraneo. Sì sente, infatti, la necessità di ripensare il termine "mediterraneo" al di fuori delle ragioni storiche del suo passato, per ricercare significati attuali capaci di spingersi oltre gli stereotipi ed i luoghi comuni.

L’architettura, quale espressione costruttiva delle tensioni della civiltà tradotte in spazi di vita e solidificate in pietra, può costituire, a questo riguardo, uno strumento di osservazione privilegiato.

L’architettura del Mediterraneo, da lento, sedimentato processo dl crescita storica, è divenuta oggi "facile" segno stilistico, da barattare per una compiacente accettazione sociale. Ciò vale per la costruzione del nuovo, con le colpevoli manomissioni di un paesaggio unico, come per la conservazione dell’antico, soggetto ad operazioni di discutibile recupero in cui le non sempre nobili esigenze dell’oggi si sovrappongono ciecamente a quelle senza tempo della storia.

Un compito primario è affidato alla competenza professionale dell’architetto che, in quanto tale, ha un ruolo essenziale specialmente per il futuro delle città mediterranee.

Ho scritto alcune settimana fa che spesso le città mediterranee vengono paragonate a "corpi umani": come gli uomini e le donne queste città nascono, crescono, si ammalano e possono morire. Gran parte di esse sono gravemente ammalate. La cura è nelle mani di chi le governa ma, soprattutto, nelle nostre. Recuperare e razionalizzare l’esistente, effettuare scelte qualitative e non quantitative, dare respiro e rigore all’azione amministrativa iniettando efficienza, competenza e professionalità: sono queste le medicine che potranno assicurare la vita futura delle città del nostro mare.

I "medici" delle città sono essenzialmente gli architetti. Il 4 ottobre, a Napoli, si svolgerà la "II Conferenza Internazionale degli Organismi Professionali degli Architetti del Mediterraneo", organizzata dal Gron (Gruppo di Rilancio dell’Ordine di Napoli), dal Copam (Confederazione degli Ordini Professionali degli Architetti del Mediterraneo) e dalla nostra Fondazione. Tre gli obiettivi primari della conferenza promuovere l’impegno sociale e l’attività progettuale degli architetti dei paesi mediterranei, affinché si converga verso obiettivi e metodologie di interventi comuni difendere e tutelare l’ambiente mediterraneo, sia per quanto concerne il rispetto degli equilibri degli eco-sistemi che per quanto attiene la conservazione delle preesistenze storico-culturali promuovere e sostenere una struttura di servizi sovranazionale a scala mediterranea che, nel rispetto dei singoli statuti degli ordini professionali che regolano l’attività dei progettisti, agevoli lo scambio culturale, il confronto scientifico e la crescita professionale degli architetti che operano lungo le coste del Mediterraneo.

In tale contesto, la città di Napoli potrebbe diventare la sede di un laboratorio di sperimentazione architettonica, urbanistica e territoriale per l’intera regione mediterranea.

In questi giorni, a Torino, si parlerà di "sicurezza" nelle città. Architetti, psicologi, sociologi, amministratori ed esperti si confronteranno. La speranza è che uno spirito di partecipazione attiva prevalga affinché venga compreso che alcune professioni – tra cui quella dell’architetto – non producono beni di consumo, ma beni legati alla collettività che vengono utilizzati spesso per secoli da diverse generazioni. Da qui l’esigenza di passare dai concetti di "misure" a quelli di "valori" e di "etica" della professione. L’auspicio è che si possa camminare insieme in questa direzione.