"IL MATTINO"

13 agosto 1997

Le sfere dell’Islam*

di Michele Capasso

Il Cairo, agosto 1997. Hosni Moubarak, presidente egiziano, condanna ferocemente l’ennesimo eccidio di Gerusalemme; quasi urla, in un afoso pomeriggio di fine luglio: "Non ci sarà mai pace senza sicurezza".

È il solito circolo vizioso. La sicurezza si ottiene con la pace e per conquistare la pace occorre un compromesso che garantisca la sicurezza.

Moubarak si congeda rivolgendosi ad un giornalista musulmano: "Fermate i fanatici della religione, aiutateli a saper leggere il Corano ed a praticare il vero islam, quello della pace".

Una delle difficoltà per l’islam sta proprio nelle diverse, spesso opposte interpretazioni del Corano.

Il Mediterraneo non è solo un serbatoio di inesauribili angosce e conflitti. I paesi arabi, e soprattutto l’islam, racchiudono inesplorati e, spesso, inaccessibili saperi. Nell’ultimo anno ho percorso circa trentamila miglia nel mare nostrum intessendo "reti", ascoltando gli altri.

Nel deserto tunisino, Ferid, vecchio teologo musulmano, racconta l’islam. A modo suo. Poggia sulla sabbia tre piccoli sassi a forma di sfere e comincia a parlare in francese, con esasperante lentezza: "La grande tragedia islamica è quella di credere che il Corano sia la trascrizione fedele del Dio che parla con Maometto suo portavoce. Non è così. Il Corano riporta la trascrizione dei pensieri e dei consigli di Maometto, che non sono la parola di Dio Maometto non è morto sulla croce come Gesù Cristo. È stato, ad un tempo, profeta e capo di stato, re e giudice. Dopo la sua morte non ha lasciato nulla di scritto. Fu il terzo califfo a riunire una commissione di saggi che trascrisse in versetti i pensieri profetici ed i consigli pratici del profeta. L’avere unito concetti filosofici (pensieri profetici) con semplici suggerimenti dettati dalle esperienze della vita quotidiana (umana), con il popolo (consigli pratici), è una prima confusione".

Considerare tutto questo – trascritto dalla commissione "riportando" parole e azioni di Maometto – come "parola di Dio" è falso.

Spesso ho potuto riscontrare come gli interpreti più intransigenti del Corano siano proprio i più restii a considerare che il sacro testo contenga parole trascritte da una commissione, trovando molto più semplice e strumentale far credere che si tratti del "verbo di Dio".

Come è possibile, infatti, mettere in discussione la "parola" di Dio?

Ferid conferma questo mio convincimento e dice: "Il Corano contiene il proprio antidoto: aprirsi al ragionamento, scritto letteralmente fath bab al ijtihad"

Maometto afferma che colui che osserva le "obbligazioni" dell’islam con atto di assoluta fede, senza chiedersi perché, riceverà "una misura" di riconoscenza; chi, invece, le osserva dopo averle sottoposte all’esame critico della sua ragione riceverà "due misure" di riconoscenza.

Il profeta invita dunque a riflettere su quello che lui stesso ha tramandato "utilizzando la ragione per adattare, con equilibrio, i principi dell’Islam al mutamento dei tempi". È questo un aspetto poco noto del Corano che lo rende adattabile ai tempi ed alle leggi delle società occidentali, dove i musulmani sono sempre più numerosi. Ma quali sono i principi dell’islam? Come possono coesistere con le leggi delle società occidentali?

"Queste – dice Ferid – sono le sfere dell’islam". Ed allinea sulla sabbia i tre sassi. Infatti essere musulmano, quale ideale tipo cui riferirsi, richiede, dal punto di vista della appartenenza, di considerare tre dimensioni.

La prima è quella che potremmo definire "sfera dell’obbligo". Il teologo musulmano traccia con l’indice sulla sabbia, a fianco della prima sfera, i primi numeri arabi: "Queste – dice – sono le cinque obbligazioni indispensabili per essere musulmano".

Seguo con attenzione il ragionamento di Ferid che in sintesi enuncia le prime cinque regole senza il cui rispetto non si è considerati musulmani. La prima consiste in due affermazioni (shahâda): "non vi è divinità all’infuori di Dio" e "Maometto è il suo profeta".

La seconda (salât) è l’obbligo rituale delle cinque preghiere quotidiane, suddivise tra la fine della notte e l’inizio di quella successiva.

Il significato di queste preghiere s’innesta su diversi oggetti dell’appartenenza all’islam: può inserirsi nell’ambito della religione (din) ed esprimere la fede, in quello dell’assemblea dei credenti (jamà a) e nella realtà sociale e politica (dunyâ/dawla), ed infine nella umma, ritualità legata esclusivamente alla vita quotidiana delle moschee.

Il terzo obbligo è il digiuno diurno (sawm) nel mese di ramadan (nono mese del calendario lunare islamico). Chiedo a Ferid il segreto dei musulmani: digiunano e sono contenti. Mi spiega che il digiuno per il musulmano è una pratica ascetica individuale che contiene però un forte significato collettivo. Da questa considerazione deriva il carattere riprovevole e la condanna in caso di violazione pubblica del digiuno che, in tal senso, è considerato un momento di celebrazione del tempo della rivelazione.

Il quarto obbligo per il musulmano è il pellegrinaggio (haij) a La Mecca: un’espressione di fede ma anche un’attrazione della umma, nel senso che a La Mecca giungono autorità politiche e capi di stato. "Questo è stato ben compreso dall’Arabia Saudita – sottolinea Ferid – che strumentalizza con abilità il pellegrinaggio dei suoi politici per consolidare il loro consenso".

Quinto obbligo, la solidarietà o elemosina (zakat) verso i poveri. Donare il superfluo ai più deboli è uno dei doveri del musulmano praticante. In molte occasioni, nei paesi musulmani, ho potuto constatare che questa pratica oggi si traduce soprattutto in contributi per la costruzione, gestione e manutenzione delle moschee e delle scuole coraniche.

I cinque obblighi della prima sfera appaiono sostanzialmente compatibili con le regole delle democrazie occidentali (libertà di credo, di culto, di comportamento, ecc.).

Ciò non avviene per la seconda sfera, che Ferid indica con la mano.

"Questa può essere definita "qualificante". Sostanzialmente contempla la sharia (shari’a), il codice di comportamento che contiene legge e regole particolari quali la lapidazione per chi commette l’adulterio, l’amputazione della mano per chi ruba e la possibilità di avere fino a quattro mogli". Queste regole si identificano spesso nell’immaginario con tutto l’islam. Non è tuttavia così.

La shari’a, pur contrastando la maggior parte delle leggi dei paesi democratici occidentali, non si applica sempre e ovunque.

In tal senso, sono specificatamente contemplate tre possibilità.

La prima si verifica nel dâr ar-islâm (mondo dell’islam): in quei paesi dell’islam con quasi totalità o notevole maggioranza di musulmani (Pakistan, Indonesia, ecc.) dove in linea di principio si applica totalmente la shari’a.

La seconda avviene nel dâr ar-harb (mondo della guerra): in quei paesi conquistati dopo una guerra e dove la shari’a si applica solo per i musulmani, rispettando coloro che non lo sono (dhimmi). Per questi ultimi viene elaborato un codice speciale in sintonia con le rispettive regole dei paesi di provenienza.

La terza è la più importante e si verifica nel dâr al-amân (mondo della pace): in quei paesi che hanno pacificamente accolto i musulmani (Francia, Spagna, Italia, etc) la teologia musulmana afferma con chiarezza che la shari’a si sospende ipso facto e, per il musulmano, corre l’obbligo di rispettare il codice e le leggi del paese che lo ospita.

"Se un musulmano intende prendere quattro mogli risiedendo in Italia afferma Ferid sorridendo con malizia – non solo va contro le leggi italiane, ma anche contro quelle della religione musulmana", e salta con la mano nella terza sfera: quella di "riferimento", inerente soprattutto tradizioni culturali, usi e costumi, non di stretta origine musulmana ma tramandati nei secoli. E Ferid mi racconta un episodio.

Due donne che partecipavano ad una festa si professavano entrambe musulmane. La prima era castamente vestita, con il volto semi coperto dal velo; la seconda, invece, indossava jeans attillati ed una scollata camicetta. Alla domanda posta da Ferid se rispettassero i principi del Corano la donna coperta dal velo rispose di osservare solo due degli obblighi della prima sfera, l’altra tutti e cinque. Ferid mi conferma che la vera musulmana praticante è la prorompente giovane in jeans e camicetta: l’usanza del velo non è musulmana, ma risale ad antiche tradizioni pastorali.

Ferid così si congeda commentando un detto arabo che, più o meno, è assimilabile al nostro "l’apparenza inganna"

Un problema che si deve porre l’Occidente rispetto all’islam è quello della cattiva informazione dell’opinione pubblica unitamente ad un disinteresse generale a voler capire, vittima ancora di retaggi coloniali.

È spesso l’ignoranza a determinare posizioni massimaliste: "l’altro" non è soltanto un pianeta da scoprire, ma soprattutto qualcuno con cui costruire una dimensione comune. Quella del Mediterraneo.