"SEGNOSETTE N.28"

27 luglio 1996

Il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo

di Michele Capasso

Il Mediterraneo vive soltanto nel nostro immaginario ed è appunto attraverso la nostra immaginazione che identifichiamo una realtà che oggi non esiste più. L’immagine che offre oggi il Mediterraneo è molto lontana dall’essere rassicurante. Abbiamo una costa settentrionale che è in ritardo rispetto al Nord dell’Europa ed una costa Sud che lo è rispetto a quella Nord. Tra il Nord e il Sud del Mediterraneo vi è poi un problema di rappresentazioni: vi sono senza dubbio differenti modi di organizzazione sociale, la distribuzione differenziata degli "status" e dei sessi, la diseguaglianza delle risorse e delle ricchezze. Ma c’è di più: esiste soprattutto il modo appannato con cui le due sponde si percepiscono, sia con la ragione che con il cuore; è un riflesso contemporaneamente istintivo e controllato, spontaneo e riflessivo, che provoca angoscia, odio, compassione, indifferenza.

Lo sguardo del Nord sul Sud non è solo quello del più laico sul meno laico, del cristiano sul musulmano, dell’europeo sul non-europeo: è soprattutto lo sguardo del ricco sul povero, del potente sul debole e in tanti casi, ancora del bianco sul nero. Il Mediterraneo è risultato uno stato confuso di cose lontano dal costituire un progetto. Per questi motivi, con grande sforzo, la Fondazione Laboratorio Mediterraneo ha elaborato questo progetto, assemblando "oggetti" e "manufatti" costruiti e costituiti da individui, enti, istituzioni e Stati del Mediterraneo, spesso perduti nel proprio interesse particolare: questi soggetti non hanno spesso la consapevolezza che quei "manufatti", da essi stessi prodotti, sono indispensabili per progettare ed edificare la "casa comune mediterranea". È un compito difficile, faticoso, tanto da poter apparire utopico, ma l’utopia è indispensabile quando si vive, come oggi accade, intrisi di una banalità che deriva essenzialmente dal ricatto dei paesi industrializzati, drogati da una "modernità" e da una voglia di "tecnologia ad ogni costo". Questi paesi hanno messo in moto il "treno della velocità", annullando il senso positivo della "lentezza", che una volta caratterizzava, perché scandiva, i tempi dell’Europa e del Mediterraneo.

La lentezza – dice Kundera – è una dimensione dei luoghi: non è un difetto. Ed io aggiungo che di luoghi ci si alimenta perché ci si vive, perché ci si abita, perché ci si sta. Il Mediterraneo, a torto, è considerato una provincia, penombra dell’Europa: con le scollature e le "lentezze" che competono alla periferia. Occorre considerare come una risorsa la "lentezza" tipica dei luoghi mediterranei: perché proprio su questa linea di confine, ai margini del centro, dove la velocità è spesso enormemente ridotta, è possibile ritrovare quella energia essenziale che scaturisce dalla scoperta delle proprie origini e dalla identificazione delle proprie radici: elementi indispensabili per ancorare i rami impazziti della "modernità" che svettano sempre più in alto senza valutare l’esistenza e la consistenza del proprio apparato radicale e l’adeguatezza di quest’ultimo a sostenerli. La lentezza può essere un metodo per criticare con oculatezza la "velocità" che ci viene imposta dalla società dei consumi. Con questo non voglio criticare, da architetto e ingegnere, anzi ne sono consapevole e partecipe, interventi positivi di sostanziale importanza come quelli del cablaggio delle città o delle nuove tecnologie, ma su questo "treno senza freni" – se mi è consentito questo paragone comunque improprio –, è indispensabile creare degli elementi di sicurezza. È come se tutti noi viaggiassimo a bordo di un treno che aumenta la sua velocità di continuo ma che, non avendo freni, deve inventare elementi sempre più sofisticati per controllare l’aumentata contingenza dell’ambiente, il percorso che deve fare, gli scambi, i passaggi a livello, i ponti, gli attraversamenti e tutti gli infiniti parametri dove la complessità diventa un problema importante e il suo controllo richiede la costruzione di strumenti sempre più sofisticati che spesso vanno anch’essi controllati, creando così un circolo vizioso che porta problemi enormi e degenerazioni. Il destino di chi viaggia su questo "treno" prevede tre ipotesi: andare a sbattere; tentare di scendere dal treno in corsa; rallentare la corsa del treno stesso. Escludendo la terza ipotesi perché improbabile, non ci resta che capire come governare la velocità: problema delicato e vitale proprio perché si rischia la vita.

Nei prossimi anni gran parte della popolazione si concentrerà ancor di più nelle principali città e molte di queste avranno più di dieci milioni di abitanti: non sarà facile viverci e avremo sempre di più anziani trascurati, giovani senza punti di riferimento, feroci somatizzazioni da stress urbano, aria irrespirabile, acque di mari e di fiumi inquinate. Queste città correranno il rischio di essere solamente l’incarnazione di un aberrante processo sorretto soltanto dal potere economico e dalla legge crudele dei mercati e dei mercanti. Uno scenario privo di storia, lontano dalle radici, dove la civiltà che potrà nascere sarà tenuta insieme non dalle idee di verità, di bellezza, di giustizia o "di destino", ma dalle idee di scambio, profitto, denaro, proprietà, commercio, prodotto, possesso. Partendo dall’uomo occidentale queste stesse idee potrebbero estendersi, per imitazione, a tutto il pianeta costituendo l’incarnazione di un potere aberrante: una droga che finirebbe col distruggere definitivamente la natura, l’ambiente e l’uomo.

Il Mediterraneo – che del pianeta costituisce la "culla" di una delle sue più antiche civiltà – da questo punto di vista, costituisce una risorsa, una difesa. L’apparente inadeguatezza del Mediterraneo dall’Europa ne fa un punto di vista privilegiato: da periferia apparente del vecchio continente e dell’"Europa dei mercati", il Mediterraneo può diventare il baricentro culturale, una risorsa indispensabile per riequilibrare i rapporti e le distanze non solo in termini di misura ma, soprattutto, in termini di valori: una risorsa per consentire di scendere da quel "treno" attraverso passaggi difficili e delicati, una sfida per trasformare una diversa cultura ed identità in nuova "forza mediterranea".

Il Mediterraneo di oggi, quello che è possibile vedere, quello che personalmente ho visto in questi ultimi tempi, non si identifica assolutamente con la rappresentazione che di questo mare viene da sempre perpetuata. La retrospettiva continua a sopraffare la prospettiva. Le chiusure che si stabiliscono in ogni parte di questo bacino contraddicono una naturale tendenza all’interdipendenza. La cultura poi è frammentatissima e contrasta se stessa e perciò non è in grado di fornirsi o di fornire alcun aiuto.

La bussola nel Mediterraneo sembra essersi definitivamente rotta. Il Mediterraneo certo non è il solo responsabile di questo stato di cose. Le sue migliori tradizioni, quelle che associano l’arte all’art de vivre, si sono spesso opposte invano. I concetti di scambio, di solidarietà, di coesione o di partenariato, devono essere sottoposti ad un severo esame critico. La sola paura dell’immigrazione proveniente dalla costa Sud non basta per determinare una politica ragionata. Molte definizioni in questo senso devono essere riconsiderate. Non esiste solo una cultura mediterranea: troppo semplicistico. Ce ne sono molte altre in seno a un solo Mediterraneo. Sono caratterizzate da tratti per certi versi simili, per altri differenti, raramente collimanti, ma mai, assolutamente mai, identici. Le somiglianze sono dovute soprattutto alla prossimità di un mare comune e all’incontro sulle sue sponde di nazioni e di forme di espressione vicine. Le differenze sono segnalate da fatti di origine, di credenze, di costumi, di storie, di tradizioni; fatti che talvolta sono essi stessi inconciliabili.

Elaborare una cultura intermediterranea alternativa: mettere in atto un progetto del genere, non è impresa facile, né appare di imminente fattibilità; condividere una visione differenziata è invece meno ambizioso anche se non sempre facile da realizzare.

Riguardo all’Europa, bisogna considerare che ci si trova di fronte ad un’importante dimensione politica che non riesce a diventare Stato e che non è gli Stati Uniti d’Europa. Probabilmente domani si parlerà di una ex-Europa. C’è un odore di ancién regime in Europa, un odore di infezione, di avaria. La morale sembra si adatti ai mille modi di voltare gabbana, pronta a considerare qualsiasi rigore come una sopravvivenza. Lo choc di quanto è accaduto nell’ex-Europa cosiddetta dell’Est è stato tanto violento quanto imprevisto. Le transizioni, per quanto male assicurate, prevalgono ancora sulle trasformazioni. Queste ultime hanno difficoltà ad imporsi o, quando si realizzano, sembrano talvolta grottesche. Un’utopia grandiosa, nata nel cuore dell’Europa Occidentale e bruscamente trapiantata nell’Est, ha generato ben più che un fallimento. L’idea di emancipazione scompare all’orizzonte.

Tutto un mondo, a diritto e a rovescio, diventa un ex-mondo. I suoi stessi abitanti, anche quando lo abbandonano o emigrano, non smettono di portarne l’impronta2.

Viviamo in un mondo pieno di eredi senza eredità. Un aggiornamento della fede e della morale è perseguito solo in ambienti limitati. Le avanguardie, che hanno proclamato e svolto i loro ruoli, sono ormai classificate. L’invocazione della "immaginazione al potere" è ormai cosa dimenticata. Tutta una "ex-cultura" non riesce, se non con gravi difficoltà, ad impadronirsi di quelle innovazioni che sono offerte o sono richieste dalla tecnologia di punta. Che fare?

È essenziale tracciare delle linee-guida. Noi proponiamo di costruire progetti comuni, abbandonando le "piccole isole"; ritrovare le radici e le sorgenti denunciando il falso universalismo; promuovere una cultura che non ammazzi il tempo ma che abitui ad usarlo, e ad usarlo bene; avere il coraggio di dire la verità ai potenti, di essere intransigenti; costruire un’architettura del mondo nella quale ciascuno di noi possa fare la sua parte; passare dallo status di "intellettuali" a quello di "cittadini"; abituarsi più ad "ascoltare" che a "dire".

Ecco, il compito di noi intellettuali dell’Europa e del Mediterraneo, il rapporto tra noi intellettuali e il potere, credo sia quello di ritrovare la via del "bene comune", ritrovare il "senso" di uno Stato capace di riunire e valorizzare le diverse identità regionali e nazionali. Se l’Europa fosse stata unita con un suo esercito, un suo confine non avremmo avuto lo scempio della ex-Jugoslavia. Ma quanto cammino c’è ancora da fare. Quanti ostacoli ancora da superare. Se non siamo capaci di eliminare le differenze dobbiamo, quanto meno, edificare un mondo in grado di contenere e valorizzare le sue diversità. Vorrei qui richiamare un concetto espresso da Jordi Pujol, intervistato giorni fa da un settimanale italiano. Al giornalista che gli chiedeva se si ritenesse un "indipendentista", Pujol ha risposto di no, affermando inoltre che l’obiettivo da perseguire è quello di far riconoscere la Catalogna – regione con una propria lingua, una propria identità, una propria cultura – all’interno della cornice dello Stato spagnolo e dell’Europa, con vantaggio reciproco per la Catalogna, per la Spagna e per l’Europa.

Personalmente credo che l’unione di regioni con una propria marcata identità – pensiamo, ad esempio, alla millenaria lingua catalana –, raggruppate in uno Stato federale moderno che partecipi, a sua volta, agli Stati Uniti d’Europa, sia l’unica via per evitare gli scempi, gli "urbicidi" e i "memoricidi" cui abbiamo assistito negli ultimi anni e per costruire un futuro di pace e di cooperazione.

In tal contesto, il ruolo dell’Italia – come quello della Spagna e delle altre nazioni mediterranee – è essenziale. Fino a ieri, i quattro Paesi dell’Unione europea che si affacciano sul Mediterraneo – Italia, Francia, Spagna e Grecia – poco hanno fatto per costruire una politica mediterranea. L’Italia, che nel Mediterraneo è immersa, che ne costituisce la naturale "passerella" di collegamento con l’Europa, non si è adeguata al ruolo che compete a questa sua posizione geografica e alle relazioni culturali, economiche e politiche instaurate nel corso dei secoli.

Oggi qualche segnale positivo si avverte: ma non è ancora sufficiente. È necessario "entrare" in una dimensione "mentale" mediterranea: bisogna costruire un’anima mediterranea basata sulla solidarietà e sulla cooperazione, anche a costo di sacrificare, talvolta, gli interessi "nazionali". Per far questo è innanzitutto indispensabile capire fino in fondo l’"emergenza" che stiamo vivendo, capire che occorre eliminare la griglia di lettura che vuole, ad ogni costo, spostare lo sviluppo futuro sui paesi del Nord dell’Europa.

L’Italia, dalla sua posizione "baricentrica", ha una grande responsabilità per il futuro del Mediterraneo: ma fino ad oggi l’ha manifestata solo con interessi esclusivamente commerciali. La grande creatività, la grande individualità, la grande forza di sopravvivenza di questa nazione non bastano per assumere la dignità di Paese moderno, guida e cerniera tra Europa e Mediterraneo. L’Italia deve investire risorse pensando al futuro ed al suo ruolo: ma per far questo deve liberarsi dai suoi problemi di politica interna ed affrontare l’emergenza mediterranea; deve liberarsi dal debito pubblico che la opprime. Questa quotidiana "distrazione" di energie mentali e di risorse materiali ha nuociuto all’Italia e al Mediterraneo: ma nel 1995 vi sono stati segnali positivi, con una inversione di tendenza, soprattutto in merito al risanamento economico, molto apprezzata dalla comunità internazionale. Come pure, e nonostante lo svolgimento delle elezioni, l’Italia, nel suo semestre di presidenza dell’Unione europea che si è di recente concluso, ha mostrato con impegno e serietà di aver seguito e curato il processo di partenariato euromediterraneo avviato con la Conferenza di Barcellona dello scorso novembre.

L’Italia ha compreso che, oltre alla cooperazione politica, è importante quella in campo culturale, caratterizzata da vari progetti in grado di avvicinare realmente le due sponde del Mediterraneo e seguita con attenzione dai principali Paesi che su questo mare si affacciano. Ma i progetti vanno realizzati: e l’Italia non è immune, come altri Paesi, dalle lentezze burocratiche e dal "virus" dell’"interesse particolare" che "uccide" il "bene comune". Da qui l’esigenza di "controllori", di "attivatori", "di uomini di buona volontà" che dirigano i lavori relativi ad un processo di cooperazione tra i popoli, oggi più che mai indispensabili.

La speranza è che il lavoro della Fondazione Laboratorio Mediterraneo e della sua rete, unitamente alle relazioni e le collaborazioni instaurate con i vari Paesi del Mediterraneo, possano contribuire a far sì che l’Italia assuma la dignità che le compete per diventare protagonista della politica del Mediterraneo.

È una sfida dalla quale l’Italia può ottenere due risultati essenziali: il recupero e la valorizzazione della propria identità e l’accelerazione di un’integrazione culturale che può trasportare il Mediterraneo nel cuore dell’Europa e l’Europa al centro del Mediterraneo.