"IL DENARO"

12 dicembre 1998

La scienza tra morale e potere

di Michele Capasso

Gerusalemme, 10 dicembre 1998. In attesa di Clinton sembra riscoppiata la guerra delle pietre. L’estate pare non voler abbandonare il deserto giudeo e la depressione del giordano. Nuovi morti si contano tra palestinesi e israeliani e gli accordi di Way Plantation sembrano essere sotterrati in questo deserto. E intanto si discute sulle armi micidiali che Saddam Hussein terrebbe nascoste come minacce per l’intera regione.

Venerdì 12 dicembre 1998. Volo a Marrakech per la riunione del Comitato internazionale di sostegno all’Accademia del Mediterraneo. Tra i temi all’ordine del giorno quello del delicato rapporto tra scienza, morale e potere. Dopo che per decenni la scienza era stata considerata una forma di conoscenza in grado di fornirci una rappresentazione del mondo neutrale ed oggettiva, in tempi più recenti si è compreso che la fiducia nella possibilità di determinare un punto di vista "privilegiato" era mal riposta. Considerati i limiti delle nostre capacità cognitive, le proposte sono, inevitabilmente, più di una, e occorre pertanto passare ad una visione ‘funzionale’ della ricerca scientifica. L’abbandono del punto di vista privilegiato e assoluto comporta altresì l’introduzione del pluralismo all’interno dell’edificio scientifico, e le conseguenze di questo stato di cose sono ovviamente fondamentali ai fini dei rapporti tra scienza e società nel suo complesso. Partendo da tali premesse, risulta evidente che la scienza (e la riflessione che ad essa si accompagna) non può isolarsi dal contesto più vasto della cultura tout court; se è vero che la scienza rappresenta uno strumento per conoscere non solo il mondo naturale ma anche quello sociale. La scienza è una delle più importanti pratiche umane, e in quanto tale va giudicata sia in riferimento alla storia, sia avendo presenti le pratiche umane che con essa interagiscono. Vi è dunque qualcosa di profondamente errato nella razionalità semplificatrice che il neopositivismo ha attribuito alla conoscenza scientifica: occorre tener conto della complessità del reale e delle ‘interrelazioni’ che ne formano il tessuto connettivo. Molti partecipanti al dibattito hanno sottolineato che la tesi secondo cui l’osservazione è sempre impregnata di teoria ha prodotto, da Popper in avanti, una serie di grandi rivolgimenti nel modo di concepire la scienza. Se affermiamo che la dimensione teorica non può essere scissa da quella osservativa, e se per di più attribuiamo alle teorie scientifiche un carattere creativo, allora le intuizioni geniali, che consentono di interpretare in modo nuovo i fenomeni, si possono spiegare più facilmente di quanto non avvenga utilizzando il modello neopositivista. Ne consegue che ogni tentativo di assoluzione della scienza è votato alla sconfitta. Naturalmente tutto questo conduce al relativismo, ma si deve anche rilevare che "relativismo" e "irrazionalismo" non sono necessariamente termini sinonimi: dare spazio alla nozione di "ragione relativa" significa semplicemente ammettere i limiti delle nostre capacità cognitive e trarne le giuste conclusioni.

Proprio per questo, pur ammettendo che la nostra conoscenza dell’universo procede verso sintesi ampie e profonde, si deve riconoscere al contempo il carattere problematico di tale conoscenza. Solo questa consapevolezza può scongiurare il pericolo sempre in agguato di considerare le teorie scientifiche in maniera assoluta. Un aspetto molto importante che influenza ancor oggi gli equilibri nell’area del Mediterraneo è il rapporto esistente tra gli scienziati e il potere. Di questo abbiamo discusso a lungo raccontando vari episodi. Emblematico il caso di uno dei piloti americani che sganciò la bomba su Hiroshima impegnando poi il resto della propria vita a compiere atti di protesta contro la società che aveva autorizzato quella missione; finì perfino in prigione e fu completamente dimenticato dalla società. Altro esempio è quello di una giovane inglese che lavorava come assistente alla facoltà di fisica la quale, avendo appreso dell’esistenza della bomba atomica, abbandonò la fisica per gli studi giuridici. In questo caso si è trattato solo di una fuga individuale, una via di salvezza personale. Il problema resta: la scienza e le sue applicazioni nefaste non possono essere soppresse rinunciando ad essere scienziati. Nessuno dei fisici che avevano ideato la bomba atomica è caduto in simili eccessi. Nel caso di quel pilota e degli scienziati che contribuirono a realizzare la bomba, il complesso di colpa era ben più vivo e drammatico, considerato il loro coinvolgimento personale nella vicenda. Anche il più grande fisico del nostro secolo, Albert Einstein, non si perdonò mai di aver attirato l’attenzione del Presidente Roosevelt sulla possibilità di costruire l’arma nucleare. Dopo la guerra, infatti, egli dichiarò che se avesse saputo che i nazisti non sarebbero riusciti a fabbricare la bomba atomica, non avrebbe mosso un dito per contribuire alla sua costruzione. Persino Robert Oppenheimer, capo dell’equipe che costruì la bomba, dichiarò nel 1956: "Abbiamo fatto il lavoro del diavolo". Occorre però chiedersi se gli scienziati possano prendere realmente le distanze nei confronti del potere.

La responsabilità morale degli uomini di scienza non può prescindere dal potere politico. Ritornando agli esempi di Einstein e Oppenheimer, il primo consigliò Roosevelt di non lasciare ad Hitler il monopolio della bomba nucleare temendo la vittoria dei nazisti, il secondo cercò in seguito di prendere le distanze dal proprio passato, dicendosi convinto che uno studio più approfondito avrebbe potuto condurre i responsabili dei progetti nucleari ad usare le nuove armi in maniera diversa. Quello che è certo è che i rischi di armamenti nucleari o similari provengono soprattutto da paesi poveri: l’India, il Pakistan, l’Iraq ed altri. E il Mediterraneo è, come sempre, al centro di tale processo. Promuovere il dialogo, costruire la pace, anche se i risultati appaiono spesso vani o inconsistenti, è un atto di fede e, al tempo stesso, un dovere di tutti.