di Danilo Zolo
Che
cosa sopravvive dell’Occidente dopo la serie di “guerre umanitarie” decise
dalle potenze occidentali negli ultimi quindici anni, e culminate nella “guerra
preventiva” scatenata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna contro l’Iraq?
Che cosa resta della grande tradizione giuridica occidentale che è all’origine
dello stesso ordinamento internazionale, dopo le sistematiche violazioni della
Carta delle Nazioni Unite di cui i paesi occidentali si sono resi responsabili?
Questo è l’interrogativo centrale dei saggi che Geminello
Preterossi ha raccolto sotto il titolo L’Occidente
contro se stesso (Roma-Bari, Laterza, 2004).
Che
cosa rimane dei valori, delle istituzioni, della identità storica
dell’Occidente e, in esso, dell’Europa occidentale? Preterossi
non assume una posizione di negazione assoluta, che non consenta alternative.
Nel cuore dell’Occidente alberga un’inclinazione intellettuale molto resistente, che manca
alle culture che non hanno conosciuto la rivoluzione razionalista e
individualista dell’illuminismo europeo e sono state appena sfiorate dal
processo di secolarizzazione. Il pungolo del dubbio, lo spirito critico, il
senso della complessità delle cose, la parzialità di ogni conoscenza: questi
valori sono, secondo Preterossi, il “nucleo
indisponibile” della modernità occidentale, laica, razionalista, tollerante.
Ma
l’Occidente moderno e contemporaneo, è, nello stesso tempo, il luogo di una
“contraddizione intrinseca e in qualche modo necessaria”: ogni discorso sulle
libertà e sui diritti individuali – scrive Preterossi
– è inevitabilmente anche un discorso sui poteri, perché l’ordine politico e
giuridico non si sostiene da solo, ma necessita, per affermarsi e
stabilizzarsi, di una forza politica organizzata che protegga i diritti anche
con
E’
in questa chiave che Preterossi esprime la sua tesi
centrale: oggi siamo in presenza di un processo paradossale che rischia di
portarci alla distruzione, proprio in nome degli “interessi vitali”
dell’Occidente, dei valori e della stessa “legittimità” della cultura politica
e giuridica occidentale. L’uso sistematico della forza in palese violazione del
diritto internazionale sembra annunciare il tramonto di una città fondata sul
diritto e sulla autonomia individuale, sulla tolleranza religiosa, sulla
libertà della ricerca, della democrazia. E’ la faccia potestativa e violenta
dell’Occidente – il suo universalismo coloniale e imperiale, il suo delirio di
onnipotenza – che prevale su quella relativista, “garantista”
e democratica.
L’idea
di Occidente, ricorda Preterossi, nasce tra
Settecento e Ottocento come una proiezione ed espansione politica della spazio
europeo nella direzione dell’ “emisfero occidentale” americano. Sia per Hegel che per Carl Schmitt – due filosofi pur così lontani l’uno dall’altro –
l’Occidente tende ad identificarsi con il “nuovo mondo” che incorpora e porta a
compimento la modernità europea, che ne universalizza i valori e le tensioni
interne. Il “nuovo mondo” americano è lo sviluppo estremo e la sintesi vitale
di una tradizione che include la filosofia greca, il diritto romano, il
cristianesimo,
Secondo
Preterossi è merito di Carl
Schmitt l’aver tracciato, in Nomos
der Erde, la genesi
dell’uso politico globale – atlantico e oceanico – della nozione di Occidente. Quest’uso si afferma a partire dalla proclamazione, nel
1823, della “dottrina Monroe” da parte degli Stati
Uniti d’America. Nasce in questo modo un’idea di Occidente che mette in
questione le linee eurocentriche della
rappresentazione globale del mondo. L’Europa perde il suo primato e la sua
centralità. Essa è parte dell’emisfero occidentale, ma in una posizione
periferica rispetto al dominio assoluto e impenetrabile che gli Stati Uniti
rivendicano sul 2grande spazio”n del continente americano. E l’Europa subisce
inesorabilmente l’egemonia degli Stati Uniti quando la nuova grande potenza
occidentale è in grado di attribuire alla “dottrina Monroe”
una dimensione universalistica ed espansionistica. In questo senso l’Occidente
che oggi conosciamo nasce quando dall’idea originaria di un Grossraum
panamericano, particolaristico e difensivo, gli Stati
uniti passano a forme di intervento ben oltre l’area caraibica
e sud-americana. Questa proiezione universalistica e globalistica
della dottrina Monroe troverà la sua massima
espressione teorica nell’idealismo wilsoniano e la
sua applicazione pratica nelle guerre mondiali del Novecento, conclusesi con i
bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki.
Questo
processo evolutivo si conclude quando gli Stati Uniti, dopo la fine della
guerra fredda e il tramonto dell’esperienza del “socialismo reale2, raggiungono
un’assoluta supremazia militare e si erigono a potenza imperiale di dimensioni
planetarie. Essi so mostrano in grado di promuovere un radicale mutamento della
guerra stessa, che da “guerra moderna” fra Stati sovrani diviene “guerra
globale”. Come ha detto Schmitt, e come Preterossi sottolinea, se la forza militare è in modo
evidente impari, muta la notizia stessa di guerra: l’avversario diviene
soltanto oggetto di coazione e l’ostilità assume forme così aspre da non poter
essere sottoposta ad alcuna limitazione o regolazione. Solo chi si trova in condizioni
di irrimediabile inferiorità si appella al diritto internazionale contro lo
strapotere dell’avversario. Chi invece gode di una completa supremazia militare
fa della sua invincibilità il fondamento della sua justa causa belli e tratta il nemico come un bandito e un criminale. Su
questo punto, ricorda Preterossi, Schmitt
ha usato parole profetiche:
La discriminazione del nemico come
criminale e la contemporanea assunzione a proprio favore della justa causa vanno di pari passo con il
potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale del
teatro di guerra. Si spalanca l’abisso di una discriminazione giuridica e
morale altrettanto distruttiva. (…) Nella misura in cui oggi la guerra viene
trasformata in azione di polizia contro turbatori della pace, criminali ed
elementi nocivi, deve essere anche potenziata la giustificazione dei metodi di
questo police bombing. Si è
così indotti a spingere la discriminazione dell’avversario in dimensioni
abissali.
Per
Preterossi sta in questa lettura schmittiana
dell’imperialismo statunitense la chiave per intendere sia le strategie
unilaterali, sempre più aggressive, che gli Stati Uniti hanno elaborato e messo
in pratica nell’ultimo decennio del secolo scorso e, in una ininterrotta escalation, nelle guerre contro
l’Afghanistan e contro l’Iraq, condotte agitando la bandiera universalistica
della guerra contro il terrorismo globale.
Entro
questa cornice concettuale si colloca la critica rigorosa che Preterossi rivolge all’universalismo etico-politico
di autori come Michael Ignatieff
e John Rawls, autori pronti a giustificare, in
termini paternalistici e moralistici, la dottrina della humanitarian intervention e, più in generale, la
pretesa espansiva e globalistica del liberalismo
politico ed economico. Altrettanto fermo è il rifiuto della new strategy sostenuta
con allarmante successo da autori neocons come
William Kristol, Richard Pearle, Paul Wolfowitz,
Michael Ledeen, Robert Kagan. L’ideologia
conservatrice di questi autori esprime nel modo più netto ed eloquente una
visione semplificata e manichea del rapporto fra
l’Occidente e il resto del mondo. Nella loro elementare “metafisica della globalizzazione”, sostiene Preterossi
citando ancora Schmitt,
una linea globale suddivide il mondo
in due metà, una delle quali buona e l’altra cattiva, ed è una linea di
valutazione morale che assegna il più e
il meno. Essa dà una risposta
permanentemente negativa dell’altra parte del pianeta.
In
questa logica non solo viene screditato l’ordinamento internazionale e vengono
emarginate le istituzioni che lo incarnano, ma si assume che gli Stati Uniti
siano l’epicentro evolutivo del pianeta. E l’Europa tende ad essere pensata
come una periferia estrema dell’emisfero occidentale, una periferia ancora una
volta in ritardo sul quadrante di una storia contemporanea che l’incontenibile
energia creativa del nuovo mondo spinge verso una rivoluzione continua.
Fra
tutti è Robert Kagan
l’autore che nel modo più esplicito e brutale ha contrapposto “l’altro
Occidente” – la potenza spirituale, politica e militare degli Stati Uniti –
alla “Vecchia Europa”, impotente e imbelle, idealisticamente devota al diritto
internazionale: un’Europa incapace di usare la forza in un mondo anarchico nel
quale la guerra al terrorismo (di matrice islamica) è divenuto il compito
primario delle nazioni democratiche, esemplarmente assolto dagli Stati Uniti.
La
guerra contro l’Iraq, interpretata in questa chiave, non è dunque soltanto,
secondo Preterossi, l’espressione di una radicale
negazione dei valori occidentali da parte della massima potenza occidentale. È
un conflitto epocale fra il nuovo e il vecchio Occidente. O, formulato più
chiaramente, è un conflitto fra l’estrema propaggine geopolitica dell’Occidente
e il suo originario spazio europeo: è un conflitto fra “l’altro Occidente” –
ormai orientato ad essere e a ritenersi il solo Occidente – e l’Europa. Un
progetto di pacificazione del mondo non passa dunque attraverso un’ulteriore
subordinazione dell’Europa al progetto egemonico degli Stati Uniti. Passa per
la capacità della “Vecchia Europa” di recuperare i suoi valori originari, a
cominciare dalla riaffermazione del diritto e delle istituzioni internazionali
e della necessità del dialogo e della cooperazione con le altre culture e
civiltà. La pace dipende dalla capacità dell’Europa Unita di svolgere una
funzione di equilibrio strategico in un mondo policentrico e multipolare, liberato dalla devastante pressione dell’unilateralismo imperiale degli Stati Uniti. Si potrebbe
dire, parafrasando Preterossi, che un nuovo ordine
mondiale dipende dalla capacità dell’Europa di essere meno “occidentale” e
molto più “europea”.
Questa
impostazione, conclude Preterossi, richiede una riflessione
impietosa sulle radici dell’orrore che anche l’Occidente si è rivelato e si
rivela ancora oggi capace di produrre. Per recuperare credibilità e legittimità
l’Occidente non ha altra via che una critica radicale, una decostruzione
della propria ambigua identità. Questa autocritica dell’Occidente deve passare
sia attraverso un recupero autoriflessivo della propria tradizione giuridica e
dei propri principi costituzionali, sia, in profondità, attraverso il
riconoscimento del suo rapporto contraddittorio con “l’insidia della potenza”
che cova nel suo seno.