Guerra, democrazia ed
eguaglianza tra gli stati:
il
Medio Oriente e il Mediterraneo
(Alessandro Colombo, Università di
Milano)
A quindici anni
dalla conclusione della guerra fredda, non ci vuol molto a riconoscere che le
promesse di un “nuovo ordine internazionale” non sono state mantenute. Al suo
posto, l’ultimo decennio ha assistito a una
proliferazione di guerre eterogenee ma egualmente estranee ai principi e alle
norme fondamentali dell’attuale diritto internazionale – dalla guerra civile
nella ex Jugoslavia all’ingerenza umanitaria in Kosovo
alla “guerra globale contro il terrorismo” fino all’ultima guerra preventiva
contro l’Iraq. Invece del funzionamento di un insieme coerente di interlocking institutions,
come quello vantato all’inizio degli anni Novanta dai politici, dai
commentatori e dagli studiosi occidentali, si è prodotto un progressivo
scostamento tra le principali istituzioni internazionali, ciascuna delle quali
ha patito oltretutto crisi diverse e incoerenti tra loro. Infine, malgrado l’enfasi
che si è continuato a porre sulle organizzazioni internazionali e sullo
sviluppo di un nuovo diritto internazionale ispirato a principi umanitari,
l’ultimo decennio ha assistito a una preoccupante decomposizione del tessuto
normativo della società internazionale e, precisamente, della sua capacità di
dettare aspettative su cui gli Stati, i popoli e i singoli individui possano
ragionevolmente contare, basandovi le proprie scelte (per esempio quella di
insorgere contro la violazione dei propri diritti) e prevedendo le scelte degli
altri (per esempio quella di essere sostenuti, in questo caso, dalla comunità
internazionale).
Di questa
decomposizione, Mediterraneo e Medio Oriente sono stati per molti versi luoghi archetipici. Sebbene, infatti, sia l’uno che
l’altro avessero un ruolo sostanzialmente marginale nell’ultima fase della
guerra fredda, ciò non è bastato a risparmiarli dalle conseguenze della sua
conclusione. Innanzitutto, e al livello più
superficiale, perché come tutte le altre regioni che compongono l’attuale
contesto internazionale anche Mediterraneo e Medio Oriente hanno dovuto
ritrovare posto in un sistema internazionale che, da bipolare, si è lentamente
trasformato in unipolare e che, da ideologicamente
eterogeneo quale era, si è trovato a fare i conti con una condizione sempre più
marcata (e politicamente offensiva) di omogeneità ideologica. In secondo luogo
perché, a differenza di ciò che è avvenuto in Europa, questa transizione non ha
potuto appoggiarsi sulla mediazione di istituzioni internazionali
regionali o universali, il cui ruolo marginale nelle vicende della regione è
uscito pressochè inalterato nel passaggio dal
bipolarismo all’unipolarismo. In terzo luogo, perché
la catastrofe spaziale che ha accompagnato la fine dell’ordine bipolare ha
radicalmente mutato sia il ruolo che i confini stessi
della regione mediterranea e di quella mediorientale, come traspare dall’uso
sempre più comune di metafore a propria volta ambigue quali “Mediterraneo
Allargato” e “Grande Medio Oriente”. Infine, e soprattutto, perché le ragioni di instabilità e i conflitti quasi tutti preesistenti di
entrambe le regioni – a cominciare dalla questione palestinese – hanno dovuto
riadattarsi a un contesto politico e culturale completamente mutato, diminuendo
la coerenza tra la regione mediorientale e quelle circostanti e favorendo non
un avvicinamento ma un allontanamento tra le sue vicende e quelle delle altre
regioni.
Una transizione plurale
Ma la ragione più importante della crisi attuale
dell’ordine internazionale sta nella natura stessa della cesura del 1989-1991.
Sotto la superficie della scontata transizione dall’ordine bipolare a un ordine internazionale diverso, adeguato alla mutata
distribuzione del potere e alla necessità di riadattare le istituzioni ereditate
dal contesto precedente, la fine del
bipolarismo si è rivelata infatti, più che come la fonte del nuovo disordine
internazionale, come una semplice (sebbene distruttiva) condizione permissiva.
Il suo principale effetto è stato quello di liberare le correnti di
decomposizione che
Proprio
queste tre correnti di
decomposizione erano già stata al centro della più consolidata tradizione di
studi europea sulle Relazioni Internazionali, quella del British
Committe. La prima e, per molti versi, la più
controversa, è l’affermazione e lo sviluppo di una visione alternativa e
inconciliabile dell’ordine internazionale, fondata non più sul particolarismo
della società degli stati ma sull’universalismo della cosiddetta società globale. Né Martin Wight, alle
origini dell’esperienza del Committee, né Hedley Bull verso la sua fine sembrano nutrire troppa
fiducia in questo processo: in parte perché non ne riconoscono la novità, né
sul piano dei principi né, tanto meno, su quello dell’esperienza storica; in
parte perché non sembrano disposti a riconoscere nella cosiddetta “società globale” qualcosa di simile a una società; in parte perché,
attenti come sono al riemergere delle differenze culturali, riconoscono
nell’universalismo di tanti radicalismi intellettuali un riflesso anacronistico
e, suo malgrado, nostalgico della centralità europea.
Ma quello
che li allarma più di tutto è che, nella diffusione di
principi e di norme universalistiche, essi intravedono un pericolo mortale per
la società degli stati. Una volta riconosciuto che le nuove norme non sorgono
da un deserto istituzionale, bensì da una architettura
secolare di istituzioni e che, pertanto, quella che è in gioco non è
l’opposizione un po’ millenaristica tra ordine e
anarchia ma, se mai, la transizione - o la ricerca di un nuovo equilibrio - fra
due diversi assetti istituzionali, l’interrogativo centrale diventa quello
della loro compatibilità: che cosa comporta il progresso del nuovo assetto
istituzionale sulla tenuta del vecchio? Il riemergere di una visione
universalistica dell’ordine e del diritto aumenta davvero il grado di istituzionalizzazione della vita internazionale oppure,
nello stesso momento in cui lo aumenta in certe dimensioni, lo diminuisce
proprio in quelle più fondamentali? Richiamandosi esplicitamente al suo
maestro, Bull (1977, 151) riconosce proprio in questo l’aspetto più problematico dell’evoluzione attuale del diritto e della
società internazionale: “questo «progresso» del diritto internazionale si è
davvero riflesso in un rafforzamento del ruolo svolto dal diritto in rapporto
all’ordine internazionale? Martin Wight ha sottolineato come i periodi nei quali le pretese del
diritto internazionali sono più esorbitanti e altisonanti siano anche i periodi
nei quali le relazioni internazionali effettive risultano più disordinate,
mentre nei periodi nei quali le relazioni internazionali effettive sono
relativamente ordinate, le pretese del diritto internazionale sono più modeste.
(…) Non è che il «progresso» del diritto
internazionale attuale, così come viene percepito dai giuristi
internazionalisti, non sia niente di più che la sua protesta montante contro la
realtà della politica internazionale”?
Sebbene con diversi accenti, Wight e Bull non sembrano nutrire dubbi sulla risposta. Da un lato, in quanto
sia l’uno che l’altro restano convinti della
sostanziale “incompatibilità dell’ideale cosmopolita con l’esistenza di un
sistema interstatale” (Wight 1977, 88). “Le idee di una giustizia mondiale o
cosmopolita sono pienamente realizzabili, ammesso che
lo siano, solo nel contesto di una società mondiale o cosmopolita. (…) Ma promuovere l’idea di una giustizia mondiale nel
contesto del sistema e della società di stati significa entrare in conflitto
con gli strumenti attraverso i quali l’ordine è attualmente mantenuto”(Bull
1977, 88).
Dall’altro lato, ciò che li preoccupa è la capacità
della società internazionale di reggere il peso di richieste sempre più
ambiziose senza smarrirsi in un labirinto di legittimità – tanto più insidioso
in un contesto, come l’attuale, nel quale l’incertezza
sui principi si traduce in un aumento della discrezionalità del più forte. Per
la stessa ragione per la quale le dà una forma caratteristica, infatti, la
dimensione istituzionale impone alla società internazionale moderna anche una
soglia massima di mutamento, oltre la quale non le è possibile andare (neppure volendolo) senza diminuire la
propria coerenza, indebolirsi e, alla fine, perdere la capacità di dare ordine e forma alla convivenza. Come ammonisce Bull
(1977, 140-141), “nella grande società dell’umanità
l’ordine potrebbe, in linea di principio, essere ottenuto in molti altri modi
oltre che attraverso una società di
stati sovrani, la quale non è storicamente inevitabile né moralmente
sacrosanta. Se l’umanità fosse organizzata come uno stato cosmopolita, o come
un impero universale, o secondo qualche altro principio, il diritto farebbe la
sua parte nell’identificare questo altro principio
come quello fondamentale o originario. Ma ciò che è incompatibile con l’ordine
su scala globale è un intrico di principi alternativi
di organizzazione politica universale, come quello che esisteva in Europa
all’epoca delle guerre di religione”.
A rendere ancora più insidioso questo conflitto di
legittimità contribuisce la seconda corrente di decomposizione, che investe la
società internazionale non nel suo principio pluralistico ma nel suo (comune)
basamento culturale. La società attuale è ancora oppure no
fondata su una cultura comune e, in caso contrario, ha qualche prospettiva di
sopravvivere? E’ davvero in corso di disintegrazione, per il solo fatto di
essersi allargata oltre la sua base europea originaria? Oppure
sta trovando una nuova base nella cultura cosmopolita della cosiddetta
modernità, qualunque sia, poi, il rapporto tra quest’ultima e l’esperienza occidentale?
La questione
dei rapporti – costitutivamente ambigui (James 1993)
– tra cultura mondiale e società internazionale diventa, col tempo, il
principale argomento di discussione e, perché no, di
divisione nel British Committe.
Se, infatti, non manca chi riconosce che la percezione di interessi
comuni può portare all’invenzione di regole “anche in assenza di una cultura
comune che le contenga già” (Bull e Watson 1994,
454), né chi si spinge ad affermare che una cultura globale si è già formata,
grazie alla costante crescita della “simpatia” fra le élite (Dore 1994, 427-444), il pessimismo di Wight trova persino
nuovo vigore nell’immagine che Adda Bozeman (1994,
405-426) offre di un contesto internazionale irrimediabilmente diviso in “una
pluralità di quadri di riferimento” (Bozeman 1994,
409), all’interno del quale sarebbe ormai impossibile trovare terreni (anche
istituzionali) comuni.
Rispetto
alla tesi più recente dei “conflitti di civiltà” (Huntington 1993; 1996), qui
il riemergere dell’eterogeneità culturale (Aron 1970) si precisa, viene messo in relazione con la tenuta dell’ossatura
istituzionale della società internazionale invece che, direttamente, con il
futuro del conflitto e della guerra ma, soprattutto, viene strappato
dall’empireo dei destini geo-storici di ostilità
(come in tante profezie correnti sui rapporti fra Occidente e Islam) per essere
ricollocato in una vicenda storica specifica, che altro non è poi che il
riflusso e l’immagine capovolta dell’espansione europea: la “rivolta contro l’Occidente”(Bull
1994). Di questa vicenda, che ha accompagnato l’intero Novecento,
l’affermazione delle identità culturali e la liberazione dall’influenza
intellettuale o culturale del mondo occidentale costituiscono
la fase terminale, non solo perché estranea alle idee e ai valori di per sé
occidentali in nome dei quali erano ancora state condotte le fasi precedenti
(Bull 1994, 230-234), ma perché direttamente rivolta contro la vocazione
universale della società internazionale di matrice europea.
La reviviscenza dei principi universalistici contro cui era sorta, da un lato, e la lenta erosione del
fondamento occidentale che ne aveva accompagnato e consolidato l’espansione,
dall’altro, restringono l’area di consenso di cui la società internazionale ha
bisogno, fino a rimettere in discussione la sua legittimità. Ma una corrente persino più
dirompente di crisi è quella che la scuote nella sua stessa effettività – vale a dire, nella sua
capacità di soddisfare gli obiettivi elementari e primari dell’ordine nella
convivenza internazionale. Nel corso del Novecento, nessuna delle principali
istituzioni della società internazionale ha potuto
sfuggire a questa corrente: non la diplomazia, i cui standard tradizionali, scrive Wight (1978, 120),
“hanno probabilmente raggiunto il loro livello più alto durante il secolo prima
del
Ma il vero punto cardinale della tenuta e, quindi,
della possibile crisi dello states system
rimane, naturalmente, lo stato – cioè l’istituzione
per eccellenza della società internazionale. Come la maggior parte della
riflessione contemporanea sulle relazioni internazionali, Bull (1977, 246-276)
non si nasconde che anche la sua presa sulla politica internazionale è
indebolita e, forse, già parzialmente sfidata da fenomeni quali i processi di integrazione regionale, le nuove ondate di disgregazione
territoriale, la crescita delle organizzazioni transnazionali, la globalizzazione economica e tecnologica, l’appropriazione
della guerra da parte di gruppi non statuali le cui pretese all’uso legittimo
della violenza, per di più, “sono considerate legittime da una parte
considerevole della società internazionale” (Bull 1977, 269).
A differenza che nell’intonazione prevalente dei
discorsi sul superamento della sovranità, tuttavia, Bull non sembra nutrire
troppa fiducia né nell’esistenza di principi e norme più efficaci né, tanto
meno, nella possibilità di passare dall’una agli altri senza passare dalle
stesse convulsioni politiche e giuridiche che hanno sempre accompagnato la
transizione da un modello di convivenza internazionale a
un altro – come la nascita stessa dello states system
europeo. Quello che lo consola, se mai, è che i segnali di crisi dello stato
gli sembrano ancora deboli e, comunque, tutt’altro che
decisivi. Sarà pur vero, per esempio, che il processo di integrazione
europeo sta sottraendo agli stati prerogative essenziali della sovranità: ma
non è detto che l’esito del processo non somigli, a propria volta, a un
super-stato, mentre è certo che niente di paragonabile sta avvenendo comunque
al di fuori dell’Europa (Bull 1977, 266). E che dire
della disgregazione territoriale? È fuori di dubbio che essa segni il
fallimento di uno stato; senonchè, al suo posto,
quelli che nascono sono pur sempre nuovi stati.
(Bull 1977, 267). Per non
parlare, poi, della pretesa novità delle relazioni e dei soggetti
transnazionali. Le imprese multinazionali hanno un fatturato maggiore di
quello di molti piccoli stati del Terzo Mondo? Ma
nessuna di esse ha un peso neppure lontanamente
paragonabile alla Compagna delle Indie e, comunque, esse continuano a dipendere
per il loro operato da un minimo di pace e ordine che soltanto gli stati
possono procurare.
E tuttavia neppure questo gli impedisce di
intravedere, sullo sfondo della sempre possibile o già latente crisi dello
stato, l’eventualità dell’emergere di “un sistema di autorità
sovrapposte e di lealtà multiple” (Bull 1977, 254) che riporterebbe la
convivenza internazionale a ciò che esisteva prima dello states system: un intreccio di poteri non esclusivi, alcuni
sovranazionali e altri sub-statali, tali da privare di significato l’idea della
sovranità dello stato sul proprio territorio. In questa condizione – che
riecheggia certe immagini più recenti di governance multilivello o di intermestic affairs (Rosenau 1997), ma per
Una discriminazione a favore delle
democrazie?
Il risultato di questo intreccio
di crisi è un crescente disallineamento tra il
diritto e le istituzioni esistenti e il modo in cui la convivenza
internazionale viene rappresentata e concepita nella cultura politica circostante.
Mentre, a propria volta, tale disallineamento produce
(e si immerge in) un labirinto di contestazioni di
legittimità, che aggrediscono l’una accanto all’altra – e per di più in modo
incoerente e inconciliabile tra loro – la divisione della società
internazionale in nome di principi universali e cosmopolitici, la matrice
occidentale di tali principi in nome del riafflusso delle differenze culturali,
e la centralità dello stato in nome di una proliferazione di titolari e di
garanti di diritti, sia al di sotto che al di sopra dello schermo della
sovranità.
Rispetto al suo
corso novecentesco, tuttavia, nel nuovo contesto
internazionale unipolare questa combinazione tra
crisi e contestazioni di legittimità è aggravata da un fatto storicamente
inusuale e politicamente dirompente. L’iniziativa di rimettere in discussione
le norme e le istituzioni esistenti non viene infatti,
questa volta, da soggetti deboli e marginali ma, al contrario, direttamente dal
paese più forte. È quest’ultimo che, in maniera sempre più esplicita,
contrappone alla stretta legalità del diritto internazionale vigente una
crescente contestazione di legittimità, a volte strisciante e a volte
apertamente dichiarata (come nel caso del Kossovo e dell’Iraq). Mentre sono
sempre gli Stati Uniti che - con argomenti tutt’altro che estranei alla cultura
politica europea e, quindi, tanto più insidiosi per i loro critici - sembrano
volere far leva sul proprio strapotere per promuovere qualcosa di simile a una “riforma costituente” della società internazionale
che, al diritto e alle istituzioni esistenti, non contrappone semplicemente la
ragione della forza, bensì il richiamo a un insieme di principi, norme e regole
alternativo rispetto a quello della vecchia
società internazionale di impronta europea.
A finire investiti da questa contestazione di legittimità sono, uno
dietro l’altro, non uno ma tutti gli strati del nostro ordine istituzionale. In
primo luogo - e in maniera sempre più manifesta a mano a mano che si sfalda il
tessuto di limiti ancorato, per quasi cinquant’anni, non al diritto, ma alla
paura di una terza guerra mondiale - la grande architettura
post-bellica centrata sulle Nazioni Unite. Che essa stia patendo una crisi
crescente di efficienza, basterebbe a dimostrarlo
l’impressionante serie di insuccessi dell’ultimo decennio – dalla gestione
fallimentare della guerra jugoslava al fiasco somalo all’inazione in Rwanda fino alla marginalizzazione subita in occasione
delle ultime due guerre del Kosovo e dell’Iraq. Ma
quello che conta di più è che questa crisi di efficienza
riflette ed alimenta una ben più profonda e multiforme crisi costituente: crisi
di credibilità, in primo luogo, cioè della capacità di fare promesse e di
mantenerle, senza mai rinunciare al proprio ruolo per il timore di non riuscire
ad assolverlo; crisi di responsabilità, in secondo luogo, cioè della soluzione
istituzionale al problema, centrale in ogni istituzione democratica, di “chi
risponde di che cosa davanti a chi”, a maggior ragione ogni volta che le
decisioni di fare qualcosa sollevano apertamente un problema di
irresponsabilità; crisi di autorità, in terzo luogo, cioè del potere stesso di
parlare a nome della comunità internazionale, dichiarando quali sono i valori e
gli interessi comuni e quando è necessario e quando no intervenire per
difenderli; infine, e soprattutto, crisi di legittimità, quale è quella che
emerge dal sempre più instabile e, a propria volta, imprevedibile equilibrio
tra principi politici e giuridici alternativi e dalla crescente tensione su chi
abbia diritto di esprimerli.
Ed è proprio a questo che si collega il secondo e più profondo strato
della crisi delle regole: non più quello delle norme e
delle istituzioni più recenti partorite dai traumi della politica
internazionale del Novecento, ma quello di ciò che resta delle istituzioni e
delle norme preesistenti della società internazionale di Stati, cioè di quelle
norme che prescrivevano quali caratteristiche si dovesse avere per farne parte,
per quale ragione ciò che ciascuno Stato rivendicava per sé – la sovranità –
dovesse riconoscerlo anche agli altri e a quali condizioni, soprattutto, si
potesse passare dall’una all’altra delle due tipiche congiunture della vita
internazionale, la pace e
Il nodo della crisi attuale delle regole ruota tutto attorno a questa
tensione. Più ancora che la crisi dell’architettura recente
delle Nazioni Unite, quella che ha segnato la politica internazionale
dell’ultimo decennio è stata proprio una crescente incertezza sui principi
costitutivi della società internazionale, che ha finito per ruotare proprio
attorno alle due principali eredità politiche e giuridiche dell’impatto
occidentale sul resto del mondo: il principio di sovranità e quello di
democrazia. Che il primo non appaia più
coerente con la cultura politica e il pensiero circostante, basterebbe a
dimostrarlo il ruolo che nella memoria storica occidentale svolge la
confutazione per eccellenza dell’idea che ciò che avviene all’interno della
giurisdizione di uno Stato debba essere sottratto alle ingerenze altrui,
l’Olocausto. E non è un caso che, sulla scorta di questo precedente,
l’evoluzione più recente del diritto e della politica internazionale abbia già
assistito a una vera e propria proliferazione di
diritti di ingerenza, a cui si è consentito di oltrepassare non soltanto il
vecchio schermo della sovranità ma anche quello più recente dell’autorizzazione
del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Resta da osservare, piuttosto, che
il ricorso intermittente e politicamente ambiguo ai nuovi principi
dell’ingerenza umanitaria ha avuto l’effetto di diffondere aspettative
anche là dove, per calcoli di convenienza politica, le aspettative erano
destinate a essere, come in effetti sono state, tradite; ha creato una
confusione politicamente insidiosa e, a volte, distruttiva tra ciò che si
intendeva fare in una situazione e ciò che non si aveva l’interesse o la
volontà di fare nelle altre; ha mostrato di non comprendere, per una grottesca ironia
della storia, che nel tanto celebrato “villaggio globale” non è possibile
invocare principi universali in un luogo senza comunicare agli uomini di tutti
gli altri luoghi che quei principi valgono anche per loro.
Senonchè é proprio qui che l’attuale contestazione di legittimità tende a impiantare un secondo principio, universale e
discriminatorio allo stesso tempo: quello della democrazia. Con la vittoria non
soltanto strategica ma anche ideologica delle democrazie liberali, infatti, la
divisione tra democratici e non democratici sta diventando qualcosa di più che
una frattura politica. Piuttosto, e con il consenso non soltanto dei principali
stati ma anche della maggior parte degli intellettuali e dei commentatori
politici occidentali, essa tende sempre di più a
essere avvertita come la nuova soglia d’accesso alla piena legittimità
internazionale. Non importa che il richiamo alla democrazia sia messo da parte,
per ragioni di opportunità politica, di fronte a molti
alleati e a non pochi (potenziali) avversari. E non importa neppure che, quando
viene impiegato, esso nasconda quasi sempre anche
altre ragioni. Quello che conta è che esso può godere del
consenso, entusiasta qualche volta e imbarazzato qualche altra, di tutti coloro
che sono convinti che i regimi democratici e i regimi non democratici non
meritino di godere degli stessi diritti; che la stessa azione (come
l’acquisizione di armi di distruzione di massa, l’uso della forza e persino
l’occupazione di territori, come nel caso esemplare dell’indulgenza degli Stati
Uniti nei confronti di Israele) abbia un significato diverso se compiuta da
regimi di un tipo o di un altro tipo; che persino il ristabilimento dei diritti
degli individui, dei popoli e degli stati stessi debba essere subordinato
all’accertamento della loro adesione ai principi democratici e liberali, se non
all’accertamento che a violarli non siano proprio paesi (riconosciuti come)
democratici.
L’innalzamento della
democrazia a nuovo principio di legittimità internazionale ha un impatto ambivalente.
Da un lato, secondo le intenzioni dei suoi fautori, esso costituisce un potente
incentivo alla trasformazione in senso democratico degli altri paesi. In
Europa, la subordinazione della politica di allargamento
dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica all’adesione agli standard
democratici e liberali ha contribuito all’instaurazione e al consolidamento
delle democrazie nei paesi ex comunisti, dalla transizione dei primi anni
Novanta all’esautorazione di Milosevic nel 2000.
Fuori dell’Europa, l’adozione del principio di condizionalità
negli aiuti allo sviluppo ha fatto lo stesso in molti paesi dell’Africa
sub-sahariana, tanto da fare parlare anche qui di una nuova ondata del processo
di democratizzazione. Infine, saldato in maniera
politicamente e concettualmente spregiudicata al diritto di ingerenza,
il richiamo all’esportazione della democrazia in Medio Oriente ha operato come
una sorta di legittimazione ex post della guerra contro l’Iraq, rinvigorita da
ogni manifestazione anche superficiale di contagio democratico nei paesi
vicini.
Dall’altro lato, a
mano a mano che suggerisce una discriminazione tra democratici e non
democratici, l’innalzamento della democrazia a nuovo principio di legittimità
internazionale entra in contraddizione con il principio dell’eguaglianza
formale degli stati, contribuendo a erodere i
tradizionali principi del diritto internazionale più ancora di qualunque
dottrina della guerra preventiva. A venire investito è nientedimeno che il
principio costitutivo della convivenza internazionale: conta di più il
principio di sovranità che, come tale, non può distinguere tra democratici e
non democratici, o l’adesione ai principi della democrazia che, al contrario,
non può non distinguere? Chi ha diritto di esprimere la volontà della comunità
internazionale: tutti gli stati, purché non commettano violazioni dei diritti
degli altri, oppure soltanto o soprattutto gli stati democratici, persino
quando violano i diritti altrui? E, infine, dove va
cercata la fonte di un ordine internazionale autenticamente democratico: nella
partecipazione di tutti o nell’oligarchia illuminata delle democrazie?
Per ironia della
storia, l’ideale della democrazia tende sempre di più a ritorcersi contro il
principio di eguaglianza. Tanto più che, nel frattempo,
anche il suo significato concreto si è perfettamente capovolto. In un sistema
internazionale nel quale quasi tutti i principali stati si ispirano
(o dichiarano di ispirarsi) ai principi democratici e liberali, questi principi
non trattengono più le diseguaglianze di potere, ma le sanzionano con il crisma
della legittimità. Mentre, in un’epoca storica che è erede non soltanto della
fine della guerra fredda ma anche di quella della dominazione occidentale sul
resto del mondo, la tentazione di restringere la “comunità internazionale” al
club ristretto delle democrazie rischia di essere percepita non come l’annuncio
di un mondo nuovo, ma come l’ultima e anacronistica espressione di un mondo che
non c’è più – non come una forma più avanzata di multilateralismo,
ma come la più persistente e invadente manifestazione di unilateralismo della storia delle relazioni internazionali
degli ultimi quattro secoli.
Come sempre nella storia delle relazioni
internazionali, questa crisi dei principi, delle norme e delle regole costitutive della
convivenza si riflette e si riassume nella disciplina della guerra. Tanto che
proprio in questo la nozione oggi consueta di “guerra asimmetrica” mostra,
dietro la sua maschera puramente tecnologica, il suo volto politico e
giuridico. Se, infatti, nelle guerre totali del Novecento la discriminazione
dell’avversario manteneva suo malgrado un carattere
reciproco, che rifletteva l’eterogeneità ideologica del sistema internazionale
e si esprimeva nel fatto che ciascuna
delle due parti non riconosceva l’eguale diritto dell’altra, nel sistema
internazionale post-bipolare anche questo residuo di reciprocità tende a venire
meno. In un sistema internazionale nel quale il principio di discriminazione a
favore delle democrazie sfida sempre più apertamente il vecchio principio di eguaglianza, quote crescenti dello jus belli vengono riappropriate dai paesi democratici proprio mentre
vengono sottratte ai paesi non democratici. Per i primi, la guerra tende sempre
di più a svincolarsi tanto dai limiti dell’architettura
politico-giuridica delle Nazioni Unite (come nella dottrina della guerra
preventiva) quanto da quelli preesistenti del rispetto della giurisdizione
altrui (come nella dottrina dell’ingerenza umanitaria). Per gli altri, al
contrario, persino il più elementare degli attributi della sovranità, il
diritto all’autodifesa, rischia di essere pregiudicato dalla (sempre) possibile
iscrizione nell’elenco dei rogue states.
Non è un caso che, in questa transizione, la metafora
del duello ceda il posto a quella del tribunale. Sebbene anche questa conservi, anzi accentui, il riferimento al
diritto, qui il successo della procedura non si esaurisce più nella tutela
della forma ma nel fatto che vinca sempre la causa giusta. Al posto
della vecchia eguaglianza formale degli stati, la guerra-tribunale impone una
netta asimmetria tra sanzionante e sanzionato: la
parte che agisce nel nome del diritto, della democrazia o, in casi estremi,
dell’umanità non può essere messa sullo stesso piano di chi è chiamato in
giudizio. Anche il ruolo dei testimoni o,
politicamente, dei neutrali, non rimane lo stesso. Mentre,
nella guerra “classica” dello jus publicum
europaeum, il ruolo che spettava loro era quello di
vigilare sul rispetto sulle forme, tenendosi rigorosamente ai margini del campo
da gioco, nella guerra attuale la neutralità cade nello stesso sospetto nel
quale cade l’indifferenza ogni volta che è in gioco la scelta fra il bene e il
male. A mano a mano che la guerra assume la forma del tribunale, la neutralità viene degradata al livello di una mancata o di una falsa
testimonianza. Il compito dei testimoni, si potrebbe dire, è quello di smettere
di essere neutrali.
Questa crisi della reciprocità nella guerra riflette e, nello stesso
tempo, alimenta una più generale crisi della reciprocità nella società
internazionale. Se, infatti, la guerra asimmetrica è di per
sé il prodotto di una società internazionale sempre più clamorosamente
asimmetrica, tanto sul piano del potere (in virtù della superiorità
politico-militare di una sola potenza) quanto sul piano del diritto (in virtù
dell’elevazione della democrazia a nuovo principio di legittimità
internazionale), essa rafforza a propria volta tali asimmetrie cancellando ogni
terreno comune di confronto, non solo nella fase militare ma anche in quella
ormai pseudo-diplomatica che