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Fondazione Liberal
“Il liberalismo nell’era della globalizzazione”


Globalizzazione e liberalismo: quale rapporto?
di
Mario Sarcinelli



Napoli, 7 giugno 1997



1. Introduzione

In un passo dei suoi celebri Cahiers, Montesquieu ammonisce che “quando si fa una statua, non bisogna star sempre seduti nello stesso posto; bisogna guardarla da tutti i lati, da lontano, da vicino, in alto, in basso, in tutti i sensi.”
Accingendomi a parlare di globalizzazione e liberalismo, credo che il riferimento a questa massima sia opportuno per rammentare, in primo luogo a me stesso, la pluralità dei possibili approcci ad un tema così ricco di sfaccettature e contrasti.
Prima facie, la tentazione è quella di una letteratura temporalmente e qualitativamente dicotomica. Abbastanza naturale è pensare al liberalismo come ad una corrente di pensiero nata e consolidatasi assai prima dello sviluppo di quel pervasivo fenomeno di integrazione economica che da qualche anno risponde al nome di globalizzazione. Forse, come cercherò di illustrare, la relazione tra i due temi in discussione è ben più antica e intricata.
Guardando al futuro, il rapporto tra liberismo e globalizzazione appare ancora più gravido di intrecci e di potenziali insidie. C’è il rischio di una deriva minimalista, di uno svilimento anarcoide della funzione dello stato. Movendo dal terreno dell’economia, si coltiva da alcuni anni una vacua fiducia che la competizione globale possa trasferirsi anche nel dominio del sociale e del politico per operare colà una sorta di selezione darwiniana tra l molteplici giurisdizioni esistenti. Attingendo a una miscela tra globalizzazione e utopia libertaria – più che liberale- ci si spinge a teorizzare, oltre alla fine della storia, la fine della politica.
Per certi versi, il mito coltivato da inarco-capitalisti e global-libertari esercita lo stesso fascino romantico che – come scrive Claudio Magris in un avvincente editoriale di qualche settimana fa – induce il cuore a parteggiare per D’Artagnan e non per le guardie del Cardinale. Eppure, rappresentando l’opposizione all’arbitrio dei signorotti feudali, dovrebbe essere proprio il personaggio di Richielieu a risultare meno distante dalla nostra razionale sensibilità di cittadini di un moderno stato e non sudditi di un antico impero.
Occorre, quindi, recuperare alla cultura e all’economia le ragioni di uno stato liberale capace di tutelare in maniera concreta i diritti fondamentali di tutti. L’attenzione che il liberalismo riserva ai processi che muovono dal basso verso l’alto (bottom up) deve informare la ricerca di un nocciolo duro di funzioni da mantenere in capo a una organizzazione statuale snella e avvertita come vero partner del cittadino.
Per contro, la valorizzazione di una concezione individualistica della società non può distinguersi da una visione universale e da un accertamento pratico, misurata nell’arena globale
dell’economia e della politica, della distanza effettiva tra – come scrive Bobbio – “il diritto rivendicato e quello riconosciuto e protetto”.
Cercherò di rendere meno oscure queste affermazioni nelle brevi riflessioni che ora mi accingo ad illustrarvi.


2. Globalizzazione e liberalismo: le lezioni del passato

Considerata in una prospettiva storica, la globalizzazione delle economie non appare affatto un fenomeno nuovo. A questa conclusione giunge con dovizia di dati e di argomentazioni un recentissimo studio curato dal Fondo Monetario Internazionale e incluso nel World Economic Outlook diffuso a metà maggio. Mercati fortemente integrati contribuirono grandemente alla veloce crescita del prodotto e dei commerci lungo tutto il periodo che va dalla metà del XIX secolo alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Basti ricordare che la quota delle esportazioni sul prodotto mondiale raggiunse nel 1913 un punto di massimo a cui fu possibile ritornare solo dopo circa un sessantennio, nel 1970.
Crescita degli scambi e forte aumento dei movimenti di capitale furono resi possibili dalla progressiva riduzione delle barriere tariffarie e dei vincoli amministrativi, nonché da quella sorta di moneta unica internazionale assicurata dalla vigenza di un gold standard. Aderendo a precetti liberisti, se non a un’organica concezione liberale, i governi di numerosi paesi dell’Europa e del Nord – America poterono ottenere invidiabili risultati macroeconomici, riassunti da un saggio reale di sviluppo del prodotto interno lordo di poco inferiore al 3 per cento nella media riferita all’oltre mezzo secolo che va dal 1850 al 1914.
Le formidabili performances aggregate non furono sufficienti a evitare che la maggiore integrazione e apertura dei mercati disseminasse in modo diseguale tra i vari segmenti della società i guadagni e, molte volte, le perdite prodotte da quella che chiamerei come la “prima globalizzazione”. La liberalizzazione del commercio spinse i danneggiati a invocare il ritorno a misure di protezione. I forti ribassi dei tassi di crescita dei salari reali registrati nei paesi meta di massicci flussi immigratori condussero alla progressiva chiusura delle frontiere. Nel contesto di queste tendenze implosive, alla voce degli scontenti diedero ascolto i nuovi leviatani che condussero il Mondo e, soprattutto, la nostra Europa nell’orrore del più grave conflitto mondiale.
A distanza di alcuni decenni dall’infausta conclusione del primo episodio, siamo dunque di fronte a un nuovo esperimento di globalizzazione. La ricetta rimane sostanzialmente la stessa, componendosi di una miscela di apertura dei mercati e di sviluppo tecnologico. Le differenze sono forse minori di quanto si possa comunemente ritenere: un secolo fa la riduzione delle barriere tariffarie avveniva attraverso accordi bilaterali mentre oggi – ovvero dalla fine della Seconda Guerra Mondiale – si prediligono intese multilaterali. Riguardo alla tecnologia, dal finanziamento e dalla costruzione di grandi rete ferroviarie siamo passati alla più moderna, ma non meno impegnativa sfida di tessere una pluralità di reti di telecomunicazioni con cui avvolgere il villaggio globale. Non a caso, quale primo indicatore dei mirabili vantaggi addotti dall’odierna globalizzazione, il citato studio del Fondo Monetario Internazionale ricorda come tra il 1970 e il 1990 il costo di una telefonata di tre minuti tra New York e Londra sia diminuito di 10 volte, da 32 a 3.3 dollari!
Ancora una volta, quindi, i tempi e le distanze dell’economia si accorciano, mentre le risposte della politica sembrano tardare se non rimanere al palo. Dobbiamo preoccuparci di questo? E’ sufficientemente solido l’impianto liberal-liberista che, in maniera più o meno esplicita, informa la cultura di questa nuova globalizzazione per reggere le pressioni di rinnovati bacini di malcontento? Le risposte possibili a simili interrogativi guardano al futuro; sono diverse e contrastanti; insistono sul medesimo e fondamentale tema circa il ruolo, se alcuno, da attribuire allo stato.


3. Verso il futuro, tra utopia libertaria e rifondazione liberale dello stato.

Nell’accezione estrema dei moderni libertari il correlato politico della globalizzazione delle economie va ricercato nella competizione degli ordinamenti e delle giurisdizioni. Come la concorrenza è in grado sotto certe condizioni di abbassare i prezzi al livello di uguagliare i costi marginali, così la possibilità del cittadino di esprimere le proprie scelte “ con i piedi” oltre che con il voto condurrebbe alla selezione delle forme più efficienti e meno oppressive di stato.
In un recente saggio dedicato all’argomento in questione, il “libertario“ elvetico Gerhard Schwarz ricorda come lo stesso Voltaire avesse già nel XVIII secolo avuto modo di apprezzare le virtù della competizione tra sistemi, dotandosi di residenze diverse in più di uno stato europeo compreso quella di Fernay sul lago Lemano che era a cavallo tra la Francia e la Svizzera e gli permetteva di cambiare giurisdizione rimanendo a casa propria! Quale fu il motivo di questa diversificazione immobiliare? La pulsione, tipicamente liberale, di proteggere la propria integrità fisica e intellettuale dalle ricorrenti ingerenze di questo o quel governo. Cosa sarebbe accaduto al campione dell’Illuminismo se una medesima giurisdizione avesse accomunato a quei tempi Francia e Svizzera, ad esempio?

Guai, quindi, a cercare oggi come allora di mortificare la ricchezza rappresentata dalla convivenza di una pluralità di giurisdizioni nazionali per imporre – sarebbe ad esempio il caso dell’Unione europea – una sorta di armonizzazione decisa ex-ante e dall’alto. I rischi più seri di un approccio costruttivista che si sostituisse all’impersonale evoluzione competitiva dei sistemi risiederebbero in una maggiore probabilità di creare strutture eccessivamente standardizzate, lontane dai cittadini e incapaci di innescare processi endogeni di auto-correzione.














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