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Guerra, democrazia ed eguaglianza tra gli stati: il Medio Oriente e il Mediterraneo
(Alessandro Colombo, Università di Milano)

A quindici anni dalla conclusione della guerra fredda, non ci vuol molto a riconoscere che le promesse di un “nuovo ordine internazionale” non sono state mantenute. Al suo posto, l’ultimo decennio ha assistito a una proliferazione di guerre eterogenee ma egualmente estranee ai principi e alle norme fondamentali dell’attuale diritto internazionale – dalla guerra civile nella ex Jugoslavia all’ingerenza umanitaria in Kosovo alla “guerra globale contro il terrorismo” fino all’ultima guerra preventiva contro l’Iraq. Invece del funzionamento di un insieme coerente di interlocking institutions, come quello vantato all’inizio degli anni Novanta dai politici, dai commentatori e dagli studiosi occidentali, si è prodotto un progressivo scostamento tra le principali istituzioni internazionali, ciascuna delle quali ha patito oltretutto crisi diverse e incoerenti tra loro. Infine, malgrado l’enfasi che si è continuato a porre sulle organizzazioni internazionali e sullo sviluppo di un nuovo diritto internazionale ispirato a principi umanitari, l’ultimo decennio ha assistito a una preoccupante decomposizione del tessuto normativo della società internazionale e, precisamente, della sua capacità di dettare aspettative su cui gli Stati, i popoli e i singoli individui possano ragionevolmente contare, basandovi le proprie scelte (per esempio quella di insorgere contro la violazione dei propri diritti) e prevedendo le scelte degli altri (per esempio quella di essere sostenuti, in questo caso, dalla comunità internazionale).
Di questa decomposizione, Mediterraneo e Medio Oriente sono stati per molti versi luoghi archetipici. Sebbene, infatti, sia l’uno che l’altro avessero un ruolo sostanzialmente marginale nell’ultima fase della guerra fredda, ciò non è bastato a risparmiarli dalle conseguenze della sua conclusione. Innanzitutto, e al livello più superficiale, perché come tutte le altre regioni che compongono l’attuale contesto internazionale anche Mediterraneo e Medio Oriente hanno dovuto ritrovare posto in un sistema internazionale che, da bipolare, si è lentamente trasformato in unipolare e che, da ideologicamente eterogeneo quale era, si è trovato a fare i conti con una condizione sempre più marcata (e politicamente offensiva) di omogeneità ideologica. In secondo luogo perché, a differenza di ciò che è avvenuto in Europa, questa transizione non ha potuto appoggiarsi sulla mediazione di istituzioni internazionali regionali o universali, il cui ruolo marginale nelle vicende della regione è uscito pressochè inalterato nel passaggio dal bipolarismo all’unipolarismo. In terzo luogo, perché la catastrofe spaziale che ha accompagnato la fine dell’ordine bipolare ha radicalmente mutato sia il ruolo che i confini stessi della regione mediterranea e di quella mediorientale, come traspare dall’uso sempre più comune di metafore a propria volta ambigue quali “Mediterraneo Allargato” e “Grande Medio Oriente”. Infine, e soprattutto, perché le ragioni di instabilità e i conflitti quasi tutti preesistenti di entrambe le regioni – a cominciare dalla questione palestinese – hanno dovuto riadattarsi a un contesto politico e culturale completamente mutato, diminuendo la coerenza tra la regione mediorientale e quelle circostanti e favorendo non un avvicinamento ma un allontanamento tra le sue vicende e quelle delle altre regioni.

Una transizione plurale
Ma la ragione più importante della crisi attuale dell’ordine internazionale sta nella natura stessa della cesura del 1989-1991. Sotto la superficie della scontata transizione dall’ordine bipolare a un ordine internazionale diverso, adeguato alla mutata distribuzione del potere e alla necessità di riadattare le istituzioni ereditate dal contesto precedente, la fine del bipolarismo si è rivelata infatti, più che come la fonte del nuovo disordine internazionale, come una semplice (sebbene distruttiva) condizione permissiva. Il suo principale effetto è stato quello di liberare le correnti di decomposizione che la Guerra Fredda aveva fortunosamente trattenuto, ma senza potere evitare che esse continuassero a scavare sotto le fondamenta della società internazionale moderna fino a fare scricchiolare, uno dietro l’altro, i suoi basamenti: la vocazione scettica nei confronti dei richiami all’unità e alla giustizia (regrediti, da ideale dell’ordine medievale, a equivalente internazionale del “dispotismo” interno, la prima, e addirittura a terreno di coltura della guerra civile, la seconda); la centralità (non soltanto politica, economica e militare ma, per effetto di ciò, anche istituzionale) dell’Europa e dell’Occidente; la capacità dello stato e delle istituzioni dello states system di continuare a svolgere le proprie funzioni “sociali”.
Proprio queste tre correnti di decomposizione erano già stata al centro della più consolidata tradizione di studi europea sulle Relazioni Internazionali, quella del British Committe. La prima e, per molti versi, la più controversa, è l’affermazione e lo sviluppo di una visione alternativa e inconciliabile dell’ordine internazionale, fondata non più sul particolarismo della società degli stati ma sull’universalismo della cosiddetta società globale. Né Martin Wight, alle origini dell’esperienza del Committee, né Hedley Bull verso la sua fine sembrano nutrire troppa fiducia in questo processo: in parte perché non ne riconoscono la novità, né sul piano dei principi né, tanto meno, su quello dell’esperienza storica; in parte perché non sembrano disposti a riconoscere nella cosiddetta “società globale” qualcosa di simile a una società; in parte perché, attenti come sono al riemergere delle differenze culturali, riconoscono nell’universalismo di tanti radicalismi intellettuali un riflesso anacronistico e, suo malgrado, nostalgico della centralità europea.
Ma quello che li allarma più di tutto è che, nella diffusione di principi e di norme universalistiche, essi intravedono un pericolo mortale per la società degli stati. Una volta riconosciuto che le nuove norme non sorgono da un deserto istituzionale, bensì da una architettura secolare di istituzioni e che, pertanto, quella che è in gioco non è l’opposizione un po’ millenaristica tra ordine e anarchia ma, se mai, la transizione - o la ricerca di un nuovo equilibrio - fra due diversi assetti istituzionali, l’interrogativo centrale diventa quello della loro compatibilità: che cosa comporta il progresso del nuovo assetto istituzionale sulla tenuta del vecchio? Il riemergere di una visione universalistica dell’ordine e del diritto aumenta davvero il grado di istituzionalizzazione della vita internazionale oppure, nello stesso momento in cui lo aumenta in certe dimensioni, lo diminuisce proprio in quelle più fondamentali? Richiamandosi esplicitamente al suo maestro, Bull (1977, 151) riconosce proprio in questo l’aspetto più problematico dell’evoluzione attuale del diritto e della società internazionale: “questo «progresso» del diritto internazionale si è davvero riflesso in un rafforzamento del ruolo svolto dal diritto in rapporto all’ordine internazionale? Martin Wight ha sottolineato come i periodi nei quali le pretese del diritto internazionali sono più esorbitanti e altisonanti siano anche i periodi nei quali le relazioni internazionali effettive risultano più disordinate, mentre nei periodi nei quali le relazioni internazionali effettive sono relativamente ordinate, le pretese del diritto internazionale sono più modeste. (…) Non è che il «progresso» del diritto internazionale attuale, così come viene percepito dai giuristi internazionalisti, non sia niente di più che la sua protesta montante contro la realtà della politica internazionale”?
Sebbene con diversi accenti, Wight e Bull non sembrano nutrire dubbi sulla risposta. Da un lato, in quanto sia l’uno che l’altro restano convinti della sostanziale “incompatibilità dell’ideale cosmopolita con l’esistenza di un sistema interstatale” (Wight 1977, 88). “Le idee di una giustizia mondiale o cosmopolita sono pienamente realizzabili, ammesso che lo siano, solo nel contesto di una società mondiale o cosmopolita. (…) Ma promuovere l’idea di una giustizia mondiale nel contesto del sistema e della società di stati significa entrare in conflitto con gli strumenti attraverso i quali l’ordine è attualmente mantenuto”(Bull 1977, 88).
Dall’altro lato, ciò che li preoccupa è la capacità della società internazionale di reggere il peso di richieste sempre più ambiziose senza smarrirsi in un labirinto di legittimità – tanto più insidioso in un contesto, come l’attuale, nel quale l’incertezza sui principi si traduce in un aumento della discrezionalità del più forte. Per la stessa ragione per la quale le dà una forma caratteristica, infatti, la dimensione istituzionale impone alla società internazionale moderna anche una soglia massima di mutamento, oltre la quale non le è possibile andare (neppure volendolo) senza diminuire la propria coerenza, indebolirsi e, alla fine, perdere la capacità di dare ordine e forma alla convivenza. Come ammonisce Bull (1977, 140-141), “nella grande società dell’umanità l’ordine potrebbe, in linea di principio, essere ottenuto in molti altri modi oltre che attraverso una società di stati sovrani, la quale non è storicamente inevitabile né moralmente sacrosanta. Se l’umanità fosse organizzata come uno stato cosmopolita, o come un impero universale, o secondo qualche altro principio, il diritto farebbe la sua parte nell’identificare questo altro principio come quello fondamentale o originario. Ma ciò che è incompatibile con l’ordine su scala globale è un intrico di principi alternativi di organizzazione politica universale, come quello che esisteva in Europa all’epoca delle guerre di religione”.
A rendere ancora più insidioso questo conflitto di legittimità contribuisce la seconda corrente di decomposizione, che investe la società internazionale non nel suo principio pluralistico ma nel suo (comune) basamento culturale. La società attuale è ancora oppure no fondata su una cultura comune e, in caso contrario, ha qualche prospettiva di sopravvivere? E’ davvero in corso di disintegrazione, per il solo fatto di essersi allargata oltre la sua base europea originaria? Oppure sta trovando una nuova base nella cultura cosmopolita della cosiddetta modernità, qualunque sia, poi, il rapporto tra quest’ultima e l’esperienza occidentale?
La questione dei rapporti – costitutivamente ambigui (James 1993) – tra cultura mondiale e società internazionale diventa, col tempo, il principale argomento di discussione e, perché no, di divisione nel British Committe. Se, infatti, non manca chi riconosce che la percezione di interessi comuni può portare all’invenzione di regole “anche in assenza di una cultura comune che le contenga già” (Bull e Watson 1994, 454), né chi si spinge ad affermare che una cultura globale si è già formata, grazie alla costante crescita della “simpatia” fra le élite (Dore 1994, 427-444), il pessimismo di Wight trova persino nuovo vigore nell’immagine che Adda Bozeman (1994, 405-426) offre di un contesto internazionale irrimediabilmente diviso in “una pluralità di quadri di riferimento” (Bozeman 1994, 409), all’interno del quale sarebbe ormai impossibile trovare terreni (anche istituzionali) comuni.
Rispetto alla tesi più recente dei “conflitti di civiltà” (Huntington 1993; 1996), qui il riemergere dell’eterogeneità culturale (Aron 1970) si precisa, viene messo in relazione con la tenuta dell’ossatura istituzionale della società internazionale invece che, direttamente, con il futuro del conflitto e della guerra ma, soprattutto, viene strappato dall’empireo dei destini geo-storici di ostilità (come in tante profezie correnti sui rapporti fra Occidente e Islam) per essere ricollocato in una vicenda storica specifica, che altro non è poi che il riflusso e l’immagine capovolta dell’espansione europea: la “rivolta contro l’Occidente”(Bull 1994). Di questa vicenda, che ha accompagnato l’intero Novecento, l’affermazione delle identità culturali e la liberazione dall’influenza intellettuale o culturale del mondo occidentale costituiscono la fase terminale, non solo perché estranea alle idee e ai valori di per sé occidentali in nome dei quali erano ancora state condotte le fasi precedenti (Bull 1994, 230-234), ma perché direttamente rivolta contro la vocazione universale della società internazionale di matrice europea.
La reviviscenza dei principi universalistici contro cui era sorta, da un lato, e la lenta erosione del fondamento occidentale che ne aveva accompagnato e consolidato l’espansione, dall’altro, restringono l’area di consenso di cui la società internazionale ha bisogno, fino a rimettere in discussione la sua legittimità. Ma una corrente persino più dirompente di crisi è quella che la scuote nella sua stessa effettività – vale a dire, nella sua capacità di soddisfare gli obiettivi elementari e primari dell’ordine nella convivenza internazionale. Nel corso del Novecento, nessuna delle principali istituzioni della società internazionale ha potuto sfuggire a questa corrente: non la diplomazia, i cui standard tradizionali, scrive Wight (1978, 120), “hanno probabilmente raggiunto il loro livello più alto durante il secolo prima del 1914”, mentre “da allora sono nettamente declinati”; non il diritto internazionale che, a mano a mano che ha preteso di riorganizzarsi attorno a una idea sostantiva di giustizia, è caduto vittima della mancanza di consenso sui suoi contenuti (Bull 1977); non la guerra, soprattutto, che ha patito per tutto il corso del secolo un impressionante processo di de-istituzionalizzazione, tanto sul versante della titolarità – per l’irruzione di una pletora di soggetti diversi dagli stati – quanto su quello della conduzione – per la continua erosione del confine tra combattenti e non combattenti e di quello ancora più comprensivo tra pace e guerra.
Ma il vero punto cardinale della tenuta e, quindi, della possibile crisi dello states system rimane, naturalmente, lo stato – cioè l’istituzione per eccellenza della società internazionale. Come la maggior parte della riflessione contemporanea sulle relazioni internazionali, Bull (1977, 246-276) non si nasconde che anche la sua presa sulla politica internazionale è indebolita e, forse, già parzialmente sfidata da fenomeni quali i processi di integrazione regionale, le nuove ondate di disgregazione territoriale, la crescita delle organizzazioni transnazionali, la globalizzazione economica e tecnologica, l’appropriazione della guerra da parte di gruppi non statuali le cui pretese all’uso legittimo della violenza, per di più, “sono considerate legittime da una parte considerevole della società internazionale” (Bull 1977, 269).
A differenza che nell’intonazione prevalente dei discorsi sul superamento della sovranità, tuttavia, Bull non sembra nutrire troppa fiducia né nell’esistenza di principi e norme più efficaci né, tanto meno, nella possibilità di passare dall’una agli altri senza passare dalle stesse convulsioni politiche e giuridiche che hanno sempre accompagnato la transizione da un modello di convivenza internazionale a un altro – come la nascita stessa dello states system europeo. Quello che lo consola, se mai, è che i segnali di crisi dello stato gli sembrano ancora deboli e, comunque, tutt’altro che decisivi. Sarà pur vero, per esempio, che il processo di integrazione europeo sta sottraendo agli stati prerogative essenziali della sovranità: ma non è detto che l’esito del processo non somigli, a propria volta, a un super-stato, mentre è certo che niente di paragonabile sta avvenendo comunque al di fuori dell’Europa (Bull 1977, 266). E che dire della disgregazione territoriale? È fuori di dubbio che essa segni il fallimento di uno stato; senonchè, al suo posto, quelli che nascono sono pur sempre nuovi stati. (Bull 1977, 267). Per non parlare, poi, della pretesa novità delle relazioni e dei soggetti transnazionali. Le imprese multinazionali hanno un fatturato maggiore di quello di molti piccoli stati del Terzo Mondo? Ma nessuna di esse ha un peso neppure lontanamente paragonabile alla Compagna delle Indie e, comunque, esse continuano a dipendere per il loro operato da un minimo di pace e ordine che soltanto gli stati possono procurare.
E tuttavia neppure questo gli impedisce di intravedere, sullo sfondo della sempre possibile o già latente crisi dello stato, l’eventualità dell’emergere di “un sistema di autorità sovrapposte e di lealtà multiple” (Bull 1977, 254) che riporterebbe la convivenza internazionale a ciò che esisteva prima dello states system: un intreccio di poteri non esclusivi, alcuni sovranazionali e altri sub-statali, tali da privare di significato l’idea della sovranità dello stato sul proprio territorio. In questa condizione – che riecheggia certe immagini più recenti di governance multilivello o di intermestic affairs (Rosenau 1997), ma per la quale Bull preferisce non a caso l’etichetta di “neomedievalismo” (Bull 1977, 254-255; 264-276) – il sistema internazionale non perderebbe più soltanto il proprio elemento societario, come gli era già accaduto più volte in passato e come è normale che accada, periodicamente, nel ciclo ininterrotto di frizioni, ritardi e arretramenti tra sistema e società. Ad andare perduto, questa volta, sarebbe il fondamento stesso del suo modello storicamente eccezionale di convivenza internazionale. Lo states system non entrerebbe in una nuova fase ma, dopo soli tre secoli e mezzo di vita, cesserebbe di esistere.

Una discriminazione a favore delle democrazie?
Il risultato di questo intreccio di crisi è un crescente disallineamento tra il diritto e le istituzioni esistenti e il modo in cui la convivenza internazionale viene rappresentata e concepita nella cultura politica circostante. Mentre, a propria volta, tale disallineamento produce (e si immerge in) un labirinto di contestazioni di legittimità, che aggrediscono l’una accanto all’altra – e per di più in modo incoerente e inconciliabile tra loro – la divisione della società internazionale in nome di principi universali e cosmopolitici, la matrice occidentale di tali principi in nome del riafflusso delle differenze culturali, e la centralità dello stato in nome di una proliferazione di titolari e di garanti di diritti, sia al di sotto che al di sopra dello schermo della sovranità.
Rispetto al suo corso novecentesco, tuttavia, nel nuovo contesto internazionale unipolare questa combinazione tra crisi e contestazioni di legittimità è aggravata da un fatto storicamente inusuale e politicamente dirompente. L’iniziativa di rimettere in discussione le norme e le istituzioni esistenti non viene infatti, questa volta, da soggetti deboli e marginali ma, al contrario, direttamente dal paese più forte. È quest’ultimo che, in maniera sempre più esplicita, contrappone alla stretta legalità del diritto internazionale vigente una crescente contestazione di legittimità, a volte strisciante e a volte apertamente dichiarata (come nel caso del Kossovo e dell’Iraq). Mentre sono sempre gli Stati Uniti che - con argomenti tutt’altro che estranei alla cultura politica europea e, quindi, tanto più insidiosi per i loro critici - sembrano volere far leva sul proprio strapotere per promuovere qualcosa di simile a una “riforma costituente” della società internazionale che, al diritto e alle istituzioni esistenti, non contrappone semplicemente la ragione della forza, bensì il richiamo a un insieme di principi, norme e regole alternativo rispetto a quello della vecchia società internazionale di impronta europea.
A finire investiti da questa contestazione di legittimità sono, uno dietro l’altro, non uno ma tutti gli strati del nostro ordine istituzionale. In primo luogo - e in maniera sempre più manifesta a mano a mano che si sfalda il tessuto di limiti ancorato, per quasi cinquant’anni, non al diritto, ma alla paura di una terza guerra mondiale - la grande architettura post-bellica centrata sulle Nazioni Unite. Che essa stia patendo una crisi crescente di efficienza, basterebbe a dimostrarlo l’impressionante serie di insuccessi dell’ultimo decennio – dalla gestione fallimentare della guerra jugoslava al fiasco somalo all’inazione in Rwanda fino alla marginalizzazione subita in occasione delle ultime due guerre del Kosovo e dell’Iraq. Ma quello che conta di più è che questa crisi di efficienza riflette ed alimenta una ben più profonda e multiforme crisi costituente: crisi di credibilità, in primo luogo, cioè della capacità di fare promesse e di mantenerle, senza mai rinunciare al proprio ruolo per il timore di non riuscire ad assolverlo; crisi di responsabilità, in secondo luogo, cioè della soluzione istituzionale al problema, centrale in ogni istituzione democratica, di “chi risponde di che cosa davanti a chi”, a maggior ragione ogni volta che le decisioni di fare qualcosa sollevano apertamente un problema di irresponsabilità; crisi di autorità, in terzo luogo, cioè del potere stesso di parlare a nome della comunità internazionale, dichiarando quali sono i valori e gli interessi comuni e quando è necessario e quando no intervenire per difenderli; infine, e soprattutto, crisi di legittimità, quale è quella che emerge dal sempre più instabile e, a propria volta, imprevedibile equilibrio tra principi politici e giuridici alternativi e dalla crescente tensione su chi abbia diritto di esprimerli.
Ed è proprio a questo che si collega il secondo e più profondo strato della crisi delle regole: non più quello delle norme e delle istituzioni più recenti partorite dai traumi della politica internazionale del Novecento, ma quello di ciò che resta delle istituzioni e delle norme preesistenti della società internazionale di Stati, cioè di quelle norme che prescrivevano quali caratteristiche si dovesse avere per farne parte, per quale ragione ciò che ciascuno Stato rivendicava per sé – la sovranità – dovesse riconoscerlo anche agli altri e a quali condizioni, soprattutto, si potesse passare dall’una all’altra delle due tipiche congiunture della vita internazionale, la pace e la guerra. E’ sufficiente uno sguardo all’ultimo decennio per constatare come di questo insieme di norme non sia rimasto, nel momento della verità, quasi nulla. Così, sarebbe un errore imperdonabile non cogliere l’enorme cesura che si cela dietro la consuetudine ormai consolidata a fare la guerra non soltanto senza dichiararla formalmente ma, prima ancora, senza mai nominarla – ultimo capitolo, certo, di quella “storia universale dell’eufemismo” che ha accompagnato come un’ombra le grandi tragedie del Novecento, ma anche segno di una crescente imprendibilità del fenomeno-guerra che dal linguaggio tende quasi naturalmente a trasferirsi al diritto. Così come sarebbe superficiale non cogliere il nesso, sul quale aveva già appuntato la propria attenzione Carl Schmitt più di cinquant’anni fa, tra questa trasfigurazione della guerra in “operazione di polizia internazionale” e la crisi della reciprocità e dell’eguaglianza formale tra gli Stati; tra questa crisi e la diffusione, anche in tempo di pace, di pratiche dichiaratamente discriminanti (sebbene incapaci di discriminare, a propria volta, tra responsabili politici e popolazione civile) come l’embargo commerciale; tra la diffusione di queste pratiche, infine, e la continuazione della corrente tipicamente novecentesca alla dissoluzione della frattura tra combattenti e non combattenti.
Il nodo della crisi attuale delle regole ruota tutto attorno a questa tensione. Più ancora che la crisi dell’architettura recente delle Nazioni Unite, quella che ha segnato la politica internazionale dell’ultimo decennio è stata proprio una crescente incertezza sui principi costitutivi della società internazionale, che ha finito per ruotare proprio attorno alle due principali eredità politiche e giuridiche dell’impatto occidentale sul resto del mondo: il principio di sovranità e quello di democrazia. Che il primo non appaia più coerente con la cultura politica e il pensiero circostante, basterebbe a dimostrarlo il ruolo che nella memoria storica occidentale svolge la confutazione per eccellenza dell’idea che ciò che avviene all’interno della giurisdizione di uno Stato debba essere sottratto alle ingerenze altrui, l’Olocausto. E non è un caso che, sulla scorta di questo precedente, l’evoluzione più recente del diritto e della politica internazionale abbia già assistito a una vera e propria proliferazione di diritti di ingerenza, a cui si è consentito di oltrepassare non soltanto il vecchio schermo della sovranità ma anche quello più recente dell’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Resta da osservare, piuttosto, che il ricorso intermittente e politicamente ambiguo ai nuovi principi dell’ingerenza umanitaria ha avuto l’effetto di diffondere aspettative anche là dove, per calcoli di convenienza politica, le aspettative erano destinate a essere, come in effetti sono state, tradite; ha creato una confusione politicamente insidiosa e, a volte, distruttiva tra ciò che si intendeva fare in una situazione e ciò che non si aveva l’interesse o la volontà di fare nelle altre; ha mostrato di non comprendere, per una grottesca ironia della storia, che nel tanto celebrato “villaggio globale” non è possibile invocare principi universali in un luogo senza comunicare agli uomini di tutti gli altri luoghi che quei principi valgono anche per loro.
Senonchè é proprio qui che l’attuale contestazione di legittimità tende a impiantare un secondo principio, universale e discriminatorio allo stesso tempo: quello della democrazia. Con la vittoria non soltanto strategica ma anche ideologica delle democrazie liberali, infatti, la divisione tra democratici e non democratici sta diventando qualcosa di più che una frattura politica. Piuttosto, e con il consenso non soltanto dei principali stati ma anche della maggior parte degli intellettuali e dei commentatori politici occidentali, essa tende sempre di più a essere avvertita come la nuova soglia d’accesso alla piena legittimità internazionale. Non importa che il richiamo alla democrazia sia messo da parte, per ragioni di opportunità politica, di fronte a molti alleati e a non pochi (potenziali) avversari. E non importa neppure che, quando viene impiegato, esso nasconda quasi sempre anche altre ragioni. Quello che conta è che esso può godere del consenso, entusiasta qualche volta e imbarazzato qualche altra, di tutti coloro che sono convinti che i regimi democratici e i regimi non democratici non meritino di godere degli stessi diritti; che la stessa azione (come l’acquisizione di armi di distruzione di massa, l’uso della forza e persino l’occupazione di territori, come nel caso esemplare dell’indulgenza degli Stati Uniti nei confronti di Israele) abbia un significato diverso se compiuta da regimi di un tipo o di un altro tipo; che persino il ristabilimento dei diritti degli individui, dei popoli e degli stati stessi debba essere subordinato all’accertamento della loro adesione ai principi democratici e liberali, se non all’accertamento che a violarli non siano proprio paesi (riconosciuti come) democratici.
L’innalzamento della democrazia a nuovo principio di legittimità internazionale ha un impatto ambivalente. Da un lato, secondo le intenzioni dei suoi fautori, esso costituisce un potente incentivo alla trasformazione in senso democratico degli altri paesi. In Europa, la subordinazione della politica di allargamento dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica all’adesione agli standard democratici e liberali ha contribuito all’instaurazione e al consolidamento delle democrazie nei paesi ex comunisti, dalla transizione dei primi anni Novanta all’esautorazione di Milosevic nel 2000. Fuori dell’Europa, l’adozione del principio di condizionalità negli aiuti allo sviluppo ha fatto lo stesso in molti paesi dell’Africa sub-sahariana, tanto da fare parlare anche qui di una nuova ondata del processo di democratizzazione. Infine, saldato in maniera politicamente e concettualmente spregiudicata al diritto di ingerenza, il richiamo all’esportazione della democrazia in Medio Oriente ha operato come una sorta di legittimazione ex post della guerra contro l’Iraq, rinvigorita da ogni manifestazione anche superficiale di contagio democratico nei paesi vicini.
Dall’altro lato, a mano a mano che suggerisce una discriminazione tra democratici e non democratici, l’innalzamento della democrazia a nuovo principio di legittimità internazionale entra in contraddizione con il principio dell’eguaglianza formale degli stati, contribuendo a erodere i tradizionali principi del diritto internazionale più ancora di qualunque dottrina della guerra preventiva. A venire investito è nientedimeno che il principio costitutivo della convivenza internazionale: conta di più il principio di sovranità che, come tale, non può distinguere tra democratici e non democratici, o l’adesione ai principi della democrazia che, al contrario, non può non distinguere? Chi ha diritto di esprimere la volontà della comunità internazionale: tutti gli stati, purché non commettano violazioni dei diritti degli altri, oppure soltanto o soprattutto gli stati democratici, persino quando violano i diritti altrui? E, infine, dove va cercata la fonte di un ordine internazionale autenticamente democratico: nella partecipazione di tutti o nell’oligarchia illuminata delle democrazie?
Per ironia della storia, l’ideale della democrazia tende sempre di più a ritorcersi contro il principio di eguaglianza. Tanto più che, nel frattempo, anche il suo significato concreto si è perfettamente capovolto. In un sistema internazionale nel quale quasi tutti i principali stati si ispirano (o dichiarano di ispirarsi) ai principi democratici e liberali, questi principi non trattengono più le diseguaglianze di potere, ma le sanzionano con il crisma della legittimità. Mentre, in un’epoca storica che è erede non soltanto della fine della guerra fredda ma anche di quella della dominazione occidentale sul resto del mondo, la tentazione di restringere la “comunità internazionale” al club ristretto delle democrazie rischia di essere percepita non come l’annuncio di un mondo nuovo, ma come l’ultima e anacronistica espressione di un mondo che non c’è più – non come una forma più avanzata di multilateralismo, ma come la più persistente e invadente manifestazione di unilateralismo della storia delle relazioni internazionali degli ultimi quattro secoli.

La guerra come riassunto
Come sempre nella storia delle relazioni internazionali, questa crisi dei principi, delle norme e delle regole costitutive della convivenza si riflette e si riassume nella disciplina della guerra. Tanto che proprio in questo la nozione oggi consueta di “guerra asimmetrica” mostra, dietro la sua maschera puramente tecnologica, il suo volto politico e giuridico. Se, infatti, nelle guerre totali del Novecento la discriminazione dell’avversario manteneva suo malgrado un carattere reciproco, che rifletteva l’eterogeneità ideologica del sistema internazionale e si esprimeva nel fatto che ciascuna delle due parti non riconosceva l’eguale diritto dell’altra, nel sistema internazionale post-bipolare anche questo residuo di reciprocità tende a venire meno. In un sistema internazionale nel quale il principio di discriminazione a favore delle democrazie sfida sempre più apertamente il vecchio principio di eguaglianza, quote crescenti dello jus belli vengono riappropriate dai paesi democratici proprio mentre vengono sottratte ai paesi non democratici. Per i primi, la guerra tende sempre di più a svincolarsi tanto dai limiti dell’architettura politico-giuridica delle Nazioni Unite (come nella dottrina della guerra preventiva) quanto da quelli preesistenti del rispetto della giurisdizione altrui (come nella dottrina dell’ingerenza umanitaria). Per gli altri, al contrario, persino il più elementare degli attributi della sovranità, il diritto all’autodifesa, rischia di essere pregiudicato dalla (sempre) possibile iscrizione nell’elenco dei rogue states.
Non è un caso che, in questa transizione, la metafora del duello ceda il posto a quella del tribunale. Sebbene anche questa conservi, anzi accentui, il riferimento al diritto, qui il successo della procedura non si esaurisce più nella tutela della forma ma nel fatto che vinca sempre la causa giusta. Al posto della vecchia eguaglianza formale degli stati, la guerra-tribunale impone una netta asimmetria tra sanzionante e sanzionato: la parte che agisce nel nome del diritto, della democrazia o, in casi estremi, dell’umanità non può essere messa sullo stesso piano di chi è chiamato in giudizio. Anche il ruolo dei testimoni o, politicamente, dei neutrali, non rimane lo stesso. Mentre, nella guerra “classica” dello jus publicum europaeum, il ruolo che spettava loro era quello di vigilare sul rispetto sulle forme, tenendosi rigorosamente ai margini del campo da gioco, nella guerra attuale la neutralità cade nello stesso sospetto nel quale cade l’indifferenza ogni volta che è in gioco la scelta fra il bene e il male. A mano a mano che la guerra assume la forma del tribunale, la neutralità viene degradata al livello di una mancata o di una falsa testimonianza. Il compito dei testimoni, si potrebbe dire, è quello di smettere di essere neutrali.
Questa crisi della reciprocità nella guerra riflette e, nello stesso tempo, alimenta una più generale crisi della reciprocità nella società internazionale. Se, infatti, la guerra asimmetrica è di per sé il prodotto di una società internazionale sempre più clamorosamente asimmetrica, tanto sul piano del potere (in virtù della superiorità politico-militare di una sola potenza) quanto sul piano del diritto (in virtù dell’elevazione della democrazia a nuovo principio di legittimità internazionale), essa rafforza a propria volta tali asimmetrie cancellando ogni terreno comune di confronto, non solo nella fase militare ma anche in quella ormai pseudo-diplomatica che la precede. Se le guerre totali del Novecento avevano già cancellato le chiare distinzioni della “guerre en forme” precedente ma, almeno, avevano salvato la possibilità della deterrenza reciproca e dei negoziati sugli armamenti, il collasso della reciprocità fa piazza pulita anche di queste ultime. La guerra asimmetrica è una guerra senza socievolezza, istituzione al collasso di una società internazionale al collasso.

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