25 gennaio 2005
di Khaled Fouad Allam
Giorni fa si è svolta all’Auditorium della musica a Roma un evento raro: un concerto in cui Eugenio Bennato ha sperimentato una contaminazione della sua musica con altre tradizioni musicali di storica contaminazione-egiziana, marocchina, algerina e dell’Africa subsahariana – in particolare un bellissimo duo con il jazzista egiziano Fathi Salama.
Il tema centrale era il
Mediterraneo: da esso rinasce costantemente una realtà condivisa nell’estetica
e nelle arti, un certo saper vivere, ma in esso vive anche una realtà opposta,
costantemente riportata alla nostra cronaca giornalistica, una realtà fatta di
guerre, divisioni, sofferenze. Negli ultimi anni il Mediterraneo è stato
segnato dalla questione identitaria, ossessione della fine secolo appena
passata e trauma del secolo appena iniziato. Negli ultimi vent’anni il
Mediterraneo ha conosciuto la proliferazione dei neonazionalismi, i conflitti
interetnici, la balcanizzazione, la moltiplicazione di fratture sociali ed
etniche, e tutte le forme di epurazione etnica.
Il Consiglio d’Europa ha
designato l’anno 2005 come “anno del Mediterraneo”. Di fatto però ne celebriamo
soltanto le derive, e la nostra incapacità di tradurre politicamente quello
spazio: quel mare in cui i canti di Ulisse si schiantano contro l’asprezza
della realtà. E fra tutte le problematiche che interessano l’area mediterranea,
la più rilevante sembra essere islam, divenuto oggi di un’attenzione
particolare da parte degli analisti politici e dei media. La potenziale
minaccia delle utopie islamiste per tutte le società, viene generalmente
analizzata entro un quadro complessivo dell’islam in cui si ritiene essenziale
e imprescindibile il rapporto fra religione e politica. Una tale visione serve
solo ad occultare l’estrema varietà delle società musulmane e la loro complessa
identità; e spesso, in una sorta di trombe-l’oeil, impedisce di riconoscere
quali siano i reali problemi della sponda sud del Mediterraneo: un’esperienza
politica incompiuta della democrazia, e una deriva economica che blocca la
crescita di quelle società rendendo più ardua la costruzione di uno spazio
democratico: così, attraverso bandiere e kalashnikov, è facile passare dalla
religione all’utopia islamiste.
Gli ultimi dieci anni hanno
inoltre visto crescere un Mediterraneo sempre più isolato, dinanzi a un mondo
che fiorisce altrove, in Cina, in India, in Brasile. Questa sensazione di
solitudine è paradossale: mai come oggi siamo stati così vicini, e mai come
oggi siamo stati così lontano. Ma la politica è e rimane l’esperienza umana in
cui le comunità tentano di ridare senso a ciò che sembra l’ineludibilità della
storia. Ho sempre pensato che l’Italia, al di là della retorica che a volte
affligge anche la questione mediterranea, può rappresentare l’elemento mancante
nel processo di globalizzazione dell’intera area, il necessario interfaccia tra
nord e sud, tra est e ovest, il punto di partenza di un tracciato che partendo
da Gorizia percorre i Balcani, che a Napoli attraversa la Sicilia per toccare
il Maghreb e il Mashreq.
Ma per costruire una politica
mediterranea, il nostro paese deve dotarsi dei mezzi necessari. Oggi si tenta
timidamente di affrontare uno dei punti di fragilità della geopolitica
mondiale: nella sponda sud del Mediterraneo e nel mondo arabo c’è il petrolio,
ma ci sono anche milioni di persone che bussano alla porta del benessere, di un
benessere che oggi è a senso unico. Si tratta allora, oltre che di rivalutare
una coscienza mediterranea, di costruire e aprire mercati, in tutti i settori,
culturale ed economici, e di promuovere sinergie costruttive fra tutti i
soggetti del Mediterraneo. Ma per questo bisogna investire, in tutti i sensi, e
si investe soltanto se si crede a qualcosa.
Un passo in questa direzione è
stato fatto in Italia: una fondazione, il Laboratorio Mediterraneo, diretta da
Michele Capasso, ha firmato un accordo con l’agenzia di stampa Ansamed per
cooperare nel settore dell’informazione; poiché ciò che i paesi arabi chiedono
in prima istanza è di essere capiti al meglio. Ciò non significa che non si
debbano denunciare le derive autoritarie in questi paesi, e talvolta il loro
timore del cambiamento; ma quei popoli debbono essere aiutati, e li si aiuta
soltanto se lisi capisce.
Il Concerto Mediterraneo che ha
sottolineato l’iniziativa rappresenta una voce profetica che non si conclude
nell’unicità della sua atmosfera. Perché nelle contaminazioni feconde si
pongono oggi come problema e come soluzione: dobbiamo tradurre politicamente
ciò che abbiamo ascoltato per cercare di armonizzare popoli culture.