1 marzo 2005
Silvio Perrella Una volta Cesare
Garboli si chiese come facesse Raffaele La Capria a trasportare sulla pagina il
timbro e il fiato dell’oralità, costruendo frasi che hanno «l’accento delle
cose che si dicono per la strada». È una domanda a cui è difficile rispondere,
perché nasconde il segreto artistico dell’ultima stagione creativa di La
Capria. E un segreto è bene che rimanga tale, che nutra senza farsi vedere, che
affiori senza mai venire del tutto in luce. La voce naturale soffia in ogni
frase de L’estro quotidiano (Mondadori), l’ultimo e conseguente approdo di uno
scrittore che sempre più si affida all’improvvisazione fulminea e inaspettata.
È un libro bellissimo, a tratti commovente, sempre arguto e spiritoso, vibrante
di malinconia e di gioia, fatto d’incontri, di amicizia e di amore. Tutta la
vita scorre davanti agli occhi di un signore di poco più di ottant’anni, che ha
imparato a guardarla e a lasciarla andar via senza troppe forzature. Vai, le
dice, se vuoi andare, io sto qui, ti aspetto pazientemente. In apparenza il
libro è un diario del 2003. Guerre lette e viste alla televisione e passeggiate
nel centro di Roma, in compagnia dell’amico Furio Sampoli, s’intrecciano.
Passato e presente si toccano e a volte fanno scintille. Appaiono i genitori,
cercati un giorno al cimitero senza riuscire a trovarli. Sul letto di morte,
appare Pelos, il fratello che ha vissuto seguendo sempre la rotta della
felicità. E c’è la storia di Giovanni Urbani, l’amico del cuore, e del suo
amore con Kiki, un vero e proprio romanzo prelevato direttamente dalla realtà e
ancora stillante di vita. Una storia, sì, d’amore, ma anche di solitudine, dove
s’intravedono le abitudini della borghesia italiana e anche i dolori, subiti in
silenzio. La Capria si affida a questa storia come se fosse la sua bussola narrativa,
il motore immobile da cui tutto prende forza e forma. E tutt’attorno si fanno
spazio i ritratti precisi e umanissimi di Ernesto Rossi, di Giovanni Papini e
di Barna Occhini, quest’ultimo il padre di Ilaria, la moglie sempre amata e
sempre ammirata per la sua bellezza. Questi ritratti servono a La Capria per
far sentire, ancor prima di capire, come sia successo che nella sua vita gli
incontri con persone appartenenti ad aree politiche opposte e contrastanti gli
abbiano permesso di capire come le ideologie siano ristrette e quanto poco
servano a comprendere la vita intima degli uomini. Ritratti, sì, ma anche
autoritratti, come sempre nello scrivere di La Capria. Scrivere di sé parlando
d’altro e di altri e viceversa: scrivere di altri e di altro parlando di sé.
Anche in questo caso non è facile raccontare come sia davvero questo scrittore,
e che uomo gli abiti dentro. In genere lo si caratterizza per quel magnifico
poema romanzesco che è Ferito a morte. Ma, cosa curiosa, pure essendo la sua
opera entrata nel pantheon dei Meridiani della Mondadori, si tratta di uno
scrittore ancora poco conosciuto. Perché? Perché egli stesso, nella sua
apparente affabilità, è sfuggente. Eppure, pochi come lui, hanno saputo
estrarre dalla vita quotidiana le ragioni del cosmo, come ebbe a notare Pier
Paolo Pasolini. Proprio per la sua sfuggente irrequietezza, ci si sorprende
quando, ne L’estro quotidiano, La Capria fissa un autoritratto che sa quasi di
confessione detta in un orecchio al lettore che sappia intendere o sia capace
di ascoltare: «No, mai sono stato contento di me, un po’ per colpa mia un po’
perché fui «dal nascere in due scisso». E dentro ebbi sempre per legge
inesplicabile della mia natura un deposito torbido nel fondo, una melmetta che
non volli rimestare perché se l’avessi appena smossa avrei intorbidato tutta
l’acqua che sopra invece si manteneva limpida». La Capria dice che «quel fondo
è ancora lì, scuro e immobile». E aggiunge: «La mia natura mi procurò
infelicità insulse e insormontabili sin dall’infanzia, un’immaginazione precoce
e morbosa oppresse la mia innocenza, e quanti desideri si distorsero prima che
li colmassi!». Ma come, lo scrittore della «bella giornata» scrive parole
simili? Com’è avvenuta la metamorfosi che l’ha portato ad essere un adulto solare,
capace di abbandonarsi alla bellezza e al godimento della vita quotidiana? Ma,
seguendo il monito di Kafka, La Capria tra sé e il mondo ha finito per
assecondare il mondo: «la parte di me che mi si rivoltò contro fu impietosa
come un forte vento contrario; ma l’altra, con l’obliqua sua vela seppe
sfruttarla al meglio, inclinando pericolosamente la barca mentre di traverso lo
stringeva; e più contrario e forte era quel vento più la mia barca acquistava
velocità nel rimontarlo. Così tutto nacque dalla scoperta che bastava
un’inezia, un nulla, una lieve correzione alla barra del timone, per mutare a
mio favore la legge fisica fino a quel momento applicata. Prevalse un’altra
legge, più sottile e attiva: quella che permise al navigante di ”risalire il
vento”». Con un’ulteriore e nuova immagine acquea e di movimento, che si
affianca e rafforza quelle già usate in passato, La Capria ci racconta le
avventure dell’umano e lo fa con questa sua lingua dove il fiato dell’oralità
sospinge l’intero edificio della sua opera. Sì, come fa a portare sulla pagina
questa oralità inventata di sana pianta, riabilitando quella civile
conversazione pubblica che sempre più appare come quasi impossibile?