IL MATTINO
16 ottobre
2005
Di Antonio Badini
È noto che
uno degli ostacoli maggiori alla rinascita della regione mediorientale è la
mancanza di regolari relazioni fra i paesi arabi e Israele. Quello della «normalizzazione» dei rapporti arabo-israeliani è
invero problema assai spinoso che ha conosciuto tuttavia in questi giorni un
inatteso, importante sviluppo religioso, passato inosservato in Italia. Il
grande imam di Al Azhar, Mohamed Tantawi, ha infatti
emesso una «fatwa» (norma religiosa) che rimuove per
gli arabi il divieto teologico dei legami con Israele, lasciando che siano gli
interessi della comunità islamica, generale o nazionale, a orientare le
decisioni dei singoli governi. La novità non è di poco conto visto che la
deliberazione promana dalla massima autorità dei sunniti,
cioè del 90% circa dei musulmani nel mondo. I termini
della questione sono noti. Deve la normalizzazione intendersi come frutto,
ambito da Israele, del regolamento globale e
definitivo di pace dell’irrisolto conflitto o può essa concepirsi come
strumento di «peacemaking», atto cioè ad accelerare
le conclusioni di un accordo di pace? Se per Israele il dilemma è già risolto a
favore della seconda ipotesi, per il mondo arabo l’atteggiamento
è meno scontato.
Anche
recentemente la Lega degli Stati arabi ha ribadito che
la normalizzazione dei rapporti con Israele può avvenire solo una volta che la
bandiera con la stella di David cessi di sventolare sugli interi territori
occupati con la «guerra dei sei giorni» del 1967. Certo, la
fatwa per quanto autorevole rientra nella sfera
religiosa del popolo musulmano e non vincola i governi. Dunque,
punto e accapo? Neanche per sogno. La normalizzazione non è solo un atto istantaneo
e unico, di efficacia generale. Essa può infatti
essere intesa come processo capace di incidere sia pure gradualmente nella
coscienza e nei convincimenti di masse di musulmani e quindi di assumere nel
tempo forza sociale e politica. Se la fatwa dello sceicco Tantawi non
modificherà verosimilmente d’un solo tratto la situazione, è però verosimile
che essa influirà sulla vasta gamma di fattispecie comportamentali racchiuse
fra la negazione assoluta dei rapporti e il loro pieno e totale dispiegamento.
Ad esempio, può portare all’attenuazione del boicottaggio, tuttora vigente per
i beni e servizi di provenienza israeliana, come il Bahrein
ha già annunciato di voler fare. Ovvero può portare al ricorso della scienza e
della tecnologia di Israele, come oggi si parla, per
l’ottimizzazione delle acque del Nilo. Da parte sua Israele potrebbe acquisire
gas egiziano, come sarebbe già nelle intenzioni degli organismi interessati. La
fatwa di Tantawi è dunque
destinata a muovere le acque un po’ stagnanti e ad avere altresì un impatto positivo sul dialogo fra le culture. Non c’è dunque da
meravigliarsi del vespaio di critiche e di prese di distanza suscitate dalla fatwa non solo da parte del
clero musulmano ma all’interno della stessa istituzione azarita.
Una reazione che non ha tuttavia indotto il grande imam a
fare marcia indietro. Non era dunque fuoco di paglia o specchietto per
le allodole il dibattito riaperto tra gli ulema di Al Azhar in occasione
dei convegni organizzati per il centenario dalla morte di un altro grande
riformatore azarita, Mohamed
Abdou. Altro che monolitismo istigatore di violenza,
come taluno aveva sentenziato per bollare come impudenti e sconsiderati gli
accademici degli atenei italiani impegnati a portare avanti studi comparati con
l’Università di Al Azhar. La realtà è ben diversa e
dovrebbe indurre nel futuro a una maggior circospezione. Già prima che emanasse
la fatwa sulla normalizzazione dei rapporti con
Israele, Tantawi inaugurando al Cairo il colloquio su
«Il terrorismo nemico dell’Islam», aveva evocato la necessità di ricostituire
nel mondo un tessuto di solidarietà per sconfiggere le ideologie anarcoidi che
propugnano il ricorso alla violenza e giustificano l’uccisione di innocenti.
Sarebbe certamente importante se i segnali positivi di dialogo e di
conciliazione che emanano in questo periodo di tensioni da uomini di diversa
cultura e religione potessero alimentare un sereno confronto delle conoscenze.
Ad esempio per approfondire il senso dell’accenno fatto recentemente dal
cardinale Tettamanzi, notato con interesse in alcuni
ambienti arabo-musulmani, alla costruzione di un nuovo modello di «unità nella
diversità». Perché proprio questo appare il compito-sfida. Se al dialogo
interculturale ci si avvicinasse con minore dilettantismo e più coraggio
intellettuale, i risultati sarebbero più visibili e di spessore. Se la
diversità va giustamente protetta c’è tuttavia l’esigenza di identificare un
insieme di principi e regole condivisi, non necessariamente comuni, per evitare
che la diversità diventi anarchia o conflitto ed altresì prevenire la deriva
morale della società moderna e il suo progressivo allontanamento
dall’insegnamento religioso, quale che sia il credo professato.