Il 3 maggio è stato presentato a Roma il
Rapporto Ecri sull’Italia della Commissione europea
contro il razzismo e l’intolleranza, iniziativa alla quale sono stato invitato
a partecipare. Da anni questo importante documento ha
assunto grande rilevanza nell’articolato panorama degli strumenti
internazionali a salvaguardia dei diritti umani. In quasi quindici anni di attività,
Credo che risieda nel suo metodo di lavoro, nel suo
approccio “Paese per Paese”, mediante il quale
Con questo approccio tutti i Paesi aderenti al
Consiglio d’Europa sono posti su un piede di
effettiva parità, senza il rischio — presente nelle iniziative di altre
organizzazioni — che sorgano diatribe ed annose polemiche sull’adozione di
“doppi standards” nell’esame dei diversi contesti
nazionali.
Ho vissuto in prima persona, nell’aprile 2002, nella veste di Presidente della
delegazione italiana presso l’Assemblea di Strasburgo, il dibattito sorto
attorno alla presentazione del precedente Rapporto sull’Italia che — lo devo rilevare per amore di verità - conteneva alcune
forzature interpretative sia in relazione a talune opzioni legislative che agli
orientamenti assunti, sulle questioni dell’immigrazione, da alcune forze della
maggioranza.
Esprimo quindi vivo compiacimento per le considerazioni svolte nel nuovo
Rapporto che riconosce, in termini positivi, le
importanti innovazioni introdotte nell’ultimo quinquennio nella legislazione
anti-discriminazione.
Viene inoltre opportunamente riconosciuto, nel nuovo Rapporto, il complesso
degli sforzi posti in essere dalle Autorità italiane
nella tutela e nell’assistenza alle vittime della tratta di esseri umani: il
primato della normativa italiana di settore, e delle connesse politiche di
attuazione, è stato del resto più volte sottolineato in sede internazionale e
costituisce un motivo di orgoglio per il nostro Paese che, per primo, ha
introdotto specifiche misure a tutela delle vittime dell’human
trafficking.
L’Ecri manifesta
altresì il suo apprezzamento per la procedura di regolarizzazione,
avviata dal Governo Berlusconi, di circa 650.000
lavoratori extracomunitari che hanno potuto ottenere uno status legale nel
nostro Paese.
Si tratta di indirizzi positivi cui purtroppo si
contrappongono elementi di criticità del quadro italiano che il Rapporto
doverosamente pone in rilievo, dalla mancata ratifica del Protocollo n. 12 alla
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sul divieto di discriminazioni, alla
perdurante carenza di una legislazione organica sul diritto d’asilo fino
all’adozione di più efficaci sistemi di monitoraggio degli incidenti a sfondo
razzista, xenofobo ed antisemita che però, fortunatamente, nel nostro Paese
appaiono numericamente ridotti, secondo quanto riportato nelle statistiche
fornite dal Ministero dell’Interno e confermato nelle analisi condotte dalle
organizzazioni non governative.
Qual è allora il contributo che può dare il nuovo Rapporto dell’Ecri sul nostro Paese?. Credo che,
al di là delle diverse articolazioni tematiche, si
possa sostanziare in un apporto, spassionato ed autorevole, alla vasta
riflessione in corso sui meriti — e sui demeriti - del “multiculturalismo
all’italiana”, divenuta di stringente attualità in questi mesi segnati dal
dibattito sulla nuova legge sulla cittadinanza e dall’esplosione di fenomeni di
violenza collettiva da parte di comunità di immigrati extracomunitari come a
Milano ed a Padova.
Come uomo politico, che continua a credere nella “società aperta”, penso di avere egualmente l’obbligo di lottare contro gli
esiti illiberali e, paradossalmente, razzisti di certo multiculturalismo,
coraggiosamente denunciati da intellettuali anti-conformisti.
Già nel 1993 Samuel Huntington descrisse il fenomeno
del multiculturalismo come una minaccia interna all’Occidente dopo il tramonto delle grandi
ideologie totalitarie: la sua parve allora una critica alla migrazione multietnica e multiculturale che
contraddistingueva e contraddistingue tutte le società aperte occidentali. In
realtà l’autore di “Scontro tra le civiltà” intendeva stigmatizzare
l’ideologia del multiculturalismo che, muovendo da
istanze egualitarie, finisce per accentuare le disuguaglianze, perché finisce
per tollerare o addirittura promuovere il razzismo delle minoranze contro le
maggioranze.
Non è un caso che a queste stesse conclusioni sia arrivato il Presidente della
britannica per l’uguaglianza razziale, il laburista Trevor
Phillips, di origini afro-caraibiche, esponente di una cultura politica che da quarant’anni ha fatto del multiculturalismo
uno dei cardini della sua piattaforma programmatica, assegnando diritti
collettivi differenti a comunità etniche o religiose.
E’ chiaro che in una società in cui il multiculturalismo
venisse applicato alla lettera, si dovrebbe concedere
il “diritto” all’infibulazione o alla poligamia a
quelle comunità che le praticano per tradizione, si dovrebbe sancire per legge
l’inferiorità giuridica di certe caste sociali ereditarie o delle donne se
richiesto da comunità che tradizionalmente praticano la discriminazione
sessuale o castale.
In una società multiculturale, insomma, l’unica
libertà che sopravvive è quella della comunità (e dei suoi capi), non degli
individui che ne fanno parte, i quali si vedrebbero negare anche i loro diritti
individuali più basilari.
Ciò significherebbe violare proprio il patrimonio giuridico-politico
promosso in sessanta anni dal Consiglio d’Europa a salvaguardia dei diritti umani, introducendo forme di
discriminazione contrastanti con il diritto di ogni persona umana alla libertà
e alla parità riconosciuto e tutelato da tutte le costituzioni occidentali.
Significa anche scegliere la tribalizzazione come
modello di società, istituzionalizzare forme di sviluppo diverso e separato
che, come Europei, non possiamo accettare senza tradire noi stessi ed il nostro
passato.
L’Europa, grazie anche all’azione dell’Organizzazione
di Strasburgo, si è più volte mostrata disponibile al dialogo interculturale:
l’Ecri ne rappresenta uno degli strumenti di punta.
Ritengo però che la vulgata multiculturalista attualmente dominante non serva oggi a promuovere
un’effettiva integrazione che alligna nei mass media come nelle organizzazioni
internazionali.
Questo perché il multiculturalismo non ha mai voluto
comprendere che alla base dell’integrazione si pone una vera e propria scelta
di vita, una decisione che non è l’Europa a dover
prendere, ma piuttosto la persona che si trova di fronte al dilemma di dover optare tra un’esistenza improntata alla condivisione di
comuni valori universali di libertà e l’isolamento auto-ghettizzante.
Occorre lucidamente riconoscere che oggi la reale problematica dell'integrazione
non trae origine, in molti Paesi europei, dalla xenofobia di certe frange della
società ma piuttosto dalla negazione e dall’ostentata ostilità dell’Islam
intransigente, il quale spesso tiene sotto il giogo della paura i credenti più
moderati, che, in passato, hanno scelto l’Europa perché
assetati di libertà e di tolleranza.
Proprio la lotta all’intolleranza religiosa deve oggi indurci a contrastare
attivamente la nuova gravissima minaccia rappresentata dalla cristianofobia che alligna in alcuni Paesi di area mussulmana e che si manifesta in forme violentissime
come nel recente eccidio di Malatya: l’intolleranza
per le confessioni cristiane è oggi una nuova, devastante forma di violazione
dei diritti umani rispetto alla quale dobbiamo registrare il colpevole
disinteresse della Comunità internazionale e di gran parte delle sue
Organizzazioni.
Per molti decenni abbiamo ritenuto che la comune battaglia contro il razzismo e
l’intolleranza si sarebbe conclusa con il crollo di
ideologie e mitologie del passato, liquidate dal progresso dello Stato di
diritto e dall’affermazione universale dei diritti umani: oggi abbiamo
dolorosamente appreso — e non tutti ancora compreso - che questa battaglia
continua contro nuovi razzismi e nuove intolleranze, rimanendo il principale
terreno di prova sul quale il nostro Continente - attraverso il Consiglio d’Europa e l’Ecri - è chiamato a
dimostrare la propria credibilità e la propria vocazione di “Continente della
Tolleranza”.