La Forza dolce
e persuasiva della convivenza
di Michele Capasso
Ottobre 2001. È caldo
nella valle del Giordano. Sul Ponte di Allenby, uno dei confini tra
Israele e Giordania, il termometro segna 36 gradi. Per i giordani il nome del
ponte non è «Allenby» ma «Re Hussein»: un enorme ritratto del sovrano hascemita
sta incorniciato sul muro del gabbiotto posto sul confine. In arabo vi è
scritto «al nostro grande re per il quale siamo disposti a donare la vita». Gli
abitanti dei paesi vicini al confine lo guardano e lo toccano come una
reliquia: il loro re è morto da tempo, il ricordo della sua azione di pace è
oggi più che mai vivo e indelebile. Passato il ponte di legno – quarantasette
tavole scricchiolanti appoggiate su assi di ferro – si giunge in Israele. Qui
non c’è nessun ritratto: solo una grande stella di David infissa nella collina
più alta di questo arido deserto. All’orizzonte si intravedono piccoli monti e
sotto di loro la città di Gerico. Un gruppo di palestinesi che vive in
Giordania- tra i pochi a cui è consentito di passare il confine - sta
fermo per diciotto ore. I militari
israeliani sollevano la corriera da terra, controllano con specchi e rilevatori
l’eventuale presenza di ordigni, fanno smontare le ruote: è allucinante! Stessa
sorte tocca a ciascuno dei passeggeri: perquisizioni personali, interrogatori e
verifica puntuale di ogni oggetto e di ogni bagaglio. Questa guerra annunciata,
provocata dall’ascesa di Sharon alla spianata del tempio il 28 settembre 2000, sta
provocando danni invisibili che lacereranno ogni tipo di convivenza tra
israeliani e palestinesi, comunque condannati dalla storia e dal futuro ad una
convivenza reciproca.
Il
Casinò di Gerico, esempio di convivenza tra israeliani e palestinesi, oggi è
deserto. Un tempo i suoi più assidui frequentatori erano soprattutto israeliani
che scendevano dalle colline di Gerusalemme e qui, nella terra più bassa del
mondo (siamo ad oltre 400 metri sotto il
livello del mare) dialogavano, giocavano, discutevano, vivevano insieme ai
palestinesi.
La strada che porta a Gerico da Gerusalemme taglia il deserto. Comincia sotto le mura della città-vecchia, discende nella valle di Kidron, passa per il giardino di Getsemani, risale per il Monte degli Ulivi, attraversa il deserto della Giudea e infine si tuffa nella depressione assiro-africana e le acque molli del Mar Morto. Vista da qui, da queste pietrose cime del deserto, Gerico, con i suoi giardini lussureggianti, i suoi aranceti e le sue palme, è un miracolo della natura, una gemma incastonata in un paesaggio lunare. Rabin decise di regalarla ad Arafat per evitare insidie dirette alla capitale Gerusalemme.
Entrare a Gerusalemme è per i palestinesi un’impresa ardua. Qui la guerra non è virtuale. La rabbia ha invaso gli animi dei palestinesi e degli israeliani e le vittime continue, come una lunga litania, infuocano gli animi rendendoli insensibili ad una forza che oggi dovrebbe prevalere: la forza dolce della solidarietà.
L’economia palestinese è al collasso e c’è il rischio reale che tutto ciò passi in secondo piano, appannato dal diario quotidiano della guerra in Afganistan e dai 7 milioni di profughi che rischiano la vita con l’inverno alle porte. Pochi passi e a Gerusalemme ci si sente catapultati in una dimensione “occidentale” lontanissima dall’atmosfera “orientale” che si respira a soli pochi metri di distanza. Forse è proprio in questo contrasto stridente una delle cause principali dei conflitti odierni: da un lato l’intreccio di saperi e competenze frutto di una diaspora attraverso i secoli del popolo ebraico e che ha trovato in Israele la sua espressione massima in termini di efficienza e produttività, dall’altro il recupero orgoglioso di identità ed antiche tradizioni tipiche dei Paesi arabi e dei Palestinesi, che, molto spesso, vi si contrappone.
Anche in questo caso occorre alimentare la “forza dolce”. Occorre rivolgere un appello alle organizzazioni umanitarie, a chi è deputato a organizzare e fornire i soccorsi affinchè questa volta, in questa emergenza mondiale, il senso del dovere e della solidarietà prevalga.
Fermare la guerra per qualche giorno, dare tempo e modo alle organizzazioni umanitarie di organizzare i soccorsi, è un dovere etico e morale che deve sovrastare ogni sentimento di giustizia. Altrimenti barbarie causerà nuova barbarie. E la giustizia sarà solo vendetta.