“MEZZOGIORNO EUROPA”

Marzo – Aprile 2002

 

 

L’EURO OGGI

DOMANI IL DIRITTO

 

di Francesco Paolo Casavola

 

L’Istituto della Enciclopedia Italiana ha di recente presentato il numero 13° della propria rivista “Iter”, organo destinato a trattare tematiche di Scuola,cultura e società per docenti e studenti degli istituti di istruzione secondaria, dato l’argomento che lo riempie: l’Europa, le sue nuove e vecchie identità, le sue lingue, la sua civiltà letteraria, le sue istituzioni, e ora la sua nuova moneta.

Come il Presidente della Repubblica afferma nel messaggio con cui la rivista si apre, “La creazione dell’euro – al di là della sua importanza tecnica, monetaria ed economica – è un grande evento politico”.

Di questo evento vorremmo essere tutti più consapevoli proprio rimovendo – e non rinnovando – quello stato di sottile e diffuso disagio psicologico, che ha accompagnato nei due primi mesi di questo anno 2002 il cambio della moneta italiana con quella europea. Gli stati d’animo hanno riguardato dapprima due aspetti, quello contabile, della conversione della moneta nelle piccole transazioni quotidiane, e quello contabile e simbolico insieme dell’ammontare di salari, stipendi, pensioni, conti in banca, vale a dire della ricchezza disponibile, poca o molta, da parte dei singoli e delle famiglie.

Non va ignorato che il frazionamento centesimale dell’euro è stato per gli anziani un ritorno alla infanzia nella memoria remota dei centesimi della lira italiana. Ma ha anche indotto in essi il sospetto di una alterazione dei prezzi al dettaglio a vantaggio dei commercianti. L’abilità nel digitare i convertitori e nello smistare le monete minuscole è stata dei giovani e anche questo è valso a far misurare la distanza fra le generazioni.

Se pure su toni minori la conversione di una nuova moneta trattiene ancora una eco di quel turbamento archetipico che caratterizzò l’ingresso nelle prime economie monetarie. Scrive Fernand Braudel: “In effetti ogni società di antica strutturazione che accolga la moneta, che apre ad essa le porte, perde prima o poi i propri equilibri interni e libera forze da allora in poi mal controllate. Il nuovo gioco imbroglia le carte, privilegia poche rare persone, rigetta gli altri nella cattiva sorte. Ogni società sotto questo impatto è costretta a fare pelle nuova” (F.B., Civiltà materiale, economia e capitalismo. Le strutture del quotidiano, secoli 15.-18., Torino, Einaudi, 1993, p. 407).

Molti si sono chiesti in questi giorni: ne valeva la pena? I sedentari vi hanno visto un vantaggio solo per chi viaggia per turismo o per affari all’estero. E anche per chi vive sui mercati internazionali le agevolazioni della moneta unica europea non hanno sopito del tutto le perplessità sulla perdita del gioco dei cambi nei flussi di importazione ed esportazione.

Quanto al secondo profilo della conversione, la rappresentazione in euro delle proprie disponibilità con l’abbattimento dei miliardi a milioni, dei milioni a migliaia ha dato la suggestione di un impoverimento e ha indotto propositi di frugalità e di risparmio, specie nelle fasce sociali vincolate a redditi fissi e modesti.

Per far nascere incondizionato favore verso l’euro occorre intenderne il prevalente significato politico.

La lira, cui ci siamo sentiti emotivamente legati, aveva espresso la nostra identità nazionale. Ma quanto aveva stentato a farsi segno dell’Unità italiana! Non due mesi, come per l’euro, ma venti anni accorsero per il cambio delle 270 monete in corso negli Stati pre-unitari e di quelle straniere circolanti nella penisola.

Un decennio per le monete d’oro e per metà di quelle d’argento, un secondo decennio per le rimanenti. La ragione di tanta lentezza, secondo Quintino Sella, stava nel non intendere che la moneta nazionale non era soltanto strumento di un unitario organismo metrologico, insieme ai pesi e alle misure, ma un linguaggio comune nella vita del commercio e del credito.

Le considerazioni di empirica utilità contabile evidentemente sono marginali nell’adozione di una moneta. Basti pensare che nel ‘700, nella sola area dello Stato di Milano, dove circolavano 22 diverse monete d’oro e 29 d’argento, a dire di Pietro Verri, i commercianti viaggiavano con un manuale di cambio di tre o quattrocento pagine per poter convertire diverse unità di valore e di misura (Sul disordine delle monete a Milano nel Settecento, tre saggi di Cesare Beccarla e Pietro Verri, a cura di Alberto Quadrio Curzio e Roberto Scazzieri, Milano, 1986, p.219.

E Marcello De Cecco e Luca Einaudi ricordano (Moneta e Unioni Monetarie dalla Rivoluzione francese all’Euro, in Il lungo cammino dell’Euro, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2001, p.138) che “un veneziano che si recava a Roma doveva cambiare ducati e grossi in scudi e baiocchi, con moltiplicazioni che, in assenza di calcolatrici, richiedevano 29 righe di calcoli”.

È solo quando una società si rispecchia nella sua propria moneta che questa viene riconosciuta ed usata come un distintivo identitario.

E questo è il risultato di un processo psicologico che accompagna il percorso di un chiaro e condiviso processo politico.

La storia della moneta è molto meno lineare di quanto non possa apparire. L’Antichità ha inaugurato con la moneta coniata la sovranità dello Stato non più soltanto sulla terra e sulla guerra ma sui traffici. E data la limitatezza dei territori dominati da piccoli Stati le monete migravano ben oltre i mercati locali.

Ma valeva anche la situazione reciproca. Roma si avviava ad essere potenza egemone nella penisola non essendo ancora dotata di moneta propria. Anche quando gli orizzonti dei domini territoriali si allargarono, le monete risentirono dei concorrenti ma spesso discordanti stimoli della coniazione e del corso garantito dalla statualità da un canto e dall’uso dei privati dall’altro. In regime di polimetallismo, piuttosto che la convertibilità, la pratica dei privati privilegiò diverse destinazioni dei metalli, l’oro per la tesaurizzazione patrimoniale, l’argento per i commerci internazionali, il rame per le minute transazioni quotidiane.

In Europa tra Medioevo e età moderna, prima che si traducesse la carta moneta, i metalli preziosi si divisero sociologicamente, l’oro ai principi, alla Chiesa, ai grandi mercanti, l’argento ai ceti medi, attivi nelle transazioni ordinarie, il rame ai poveri. E tra i grandi Stati che miravano ai metalli oltremare, l’oro andò al Portogallo, l’argento alla Spagna, ma a condizione che le loro monete circolassero come moneta “comune a tutte le nazioni” (Cfr. Braudel, op. cit., p.626).

Sono gli Stati nazionali a superare l’antagonismo Stato-privati, finanza dei sovrani e economia della società, mettendo ordine nella circolazione delle monete, divenute nazionali, e con la carta in luogo dei metalli, e poi con il corso forzoso e una razionale disciplina monopolistica della emissione a realizzare la pienezza simbolica della moneta rispetto alla realtà richiamata di un grande spazio insieme politico, giuridico ed economico, vero e protettivo recinto dell’ordinata vita di un popolo.

E tuttavia la sovranità dello Stato nazione non è andata esente dai mali della sovranità degli Stati territoriali, assoluti o costituzionali che fossero. In particolare lo Stato nazionale ha ereditato e portato a compimento le filosofie politiche della classicità greco-romana, quelle utopiche di età pre-moderna, quelle idealistiche del XIX secolo fino a degenerare nei totalitarismi del Novecento. I mostruosi carnai umani delle guerre di questo ultimo secolo hanno aperto gli occhi sulla necessità di integrare le esistenze dei popoli europei oltre le frontiere nazionali.

Il processo storico apertosi oltre mezzo secolo fa con la formazione delle comunità europee – del Carbone e Acciaio, dell’Energia Atomica, del Mercato Comune, della Comunità Economica e oggi dell’Unione Europea – trova nella Moneta Unica il suo più alto traguardo.

Ma perché la Moneta Unica valga a introdurre nella psicologia collettiva degli europei la coscienza di appartenere ad una poliV europea, alla quale intendono essere associati anche altri popoli europei che la storia ha tenuto separati dalle regioni occidentali del Continente, occorre fare un passo ulteriore.

Riflettiamo ancora sulla moneta. Con essa i cittadini gestiscono la loro vita quotidiana, nelle sue incombenze ordinarie e in quelle straordinarie. Esercitano cioè diritti nella pienezza e nella pregnanza che l’organizzazione del mondo e la comune cittadinanza loro riconosce, non più soltanto essenziali e primordiali gesti di scambio come nelle economie elementari. Dunque sarebbe irragionevole che gli europei non possedessero insieme alla moneta comunitaria, e vorrei dire incorporati in essa, comuni diritti, allo stesso modo e dovunque tutelati.

La carta di Nizza, dei diritti fondamentali dei cittadini europei, è oggi soltanto una proclamazione. Urge che si traduca in un atto costituzionale e che sancisca il presidio di quei diritti, che poi sono tutta intera la realtà giuridica della cittadinanza europea, attribuendolo a giudici europei, non nazionali. Se si rimedia sulla impensabilità, ancora pochi anni fa, del fatto che lo Stato nazionale potesse privarsi del massimo attributo della sovranità, ch’era quello di battere moneta, e sulla realtà aggiunta di una moneta non nazionale, non si dovrà giudicare ingenuo e puramente ottativo il proposito di separare dal prisma dei poteri sovrani dello Stato nazione la faccia corrispondente alla giurisdizione.

Dinanzi al processo di integrazione europea, al punto in cui è giunto, si manifestano due opposte valutazioni, di chi diagnostica una già avvenuta desovranizzazione degli Stati nazionali, e di chi invece reputa insuperabile la integrità della sovranità degli Stati membri di una Unione, che conserva le strutture irrinunciabili di una alleanza in perpetua negoziazione e rilutta a darsi la costituzione di super Stato esemplata su quella di uno Stato nazione.

Il sogno dei padri fondatori dell’europeismo novecentesco, di una federazione di Stati Uniti d’Europa, è forse destinato a restare nell’immediato avvenire ancora un lontano ideale. Se si usano le categorie di Bracton, gubernaculum e iurisdictio, è solo quest’ultima a gravitare interamente negli interessi e nei diritti dei singoli cittadini.

Il gubernaculum resterà, chissà per quante generazioni ancora, nella sovranità degli Stati-apparato. Per una giurisdizione europea invece esistono i supporti e gli antefatti culturali. Il civil law è la comune famiglia giuridica degli ordinamenti continentali. Il common law vi si sta avvicinando. Dovunque, anche nei sistemi più intensamente legiferati, prevale la produzione di diritto giurisprudenziale traverso l’interpretazione dei tribunali. L’educazione giuridica universitaria è comune. I sistemi processuali sono simili. Dall’armonizzazione alla unificazione giuridica il passo è soltanto di buoni studi e di buona volontà. L’Europa ha avuto secoli di diritto comune. È ben matura per avere, con tutte le mutazioni storiche intervenute, una nuova era di diritto comune.

Nel Memoriale di Sant’Elena, Las Cases ricorda che Napoleone avrebbe voluto unità di moneta e di misure, seguita ad un unico Codice Europeo e ad una unica Università Europea: “In questa maniera non avremmo costituito in Europa che una sola unica famiglia. Ognuno viaggiando non avrebbe cessato di trovarsi a casa sua” (E.-A.-D. Las Cases, Mémorial de Sainte-Hélène, Bruxelles, 1823-1824, VII, p.228).

Oggi siamo a posizioni invertite. C’è già la moneta europea. Non dovrebbe essere impossibile avere un diritto e un giudice per sentirsi dovunque, in Europa, malgrado la varietà delle lingue e delle bandiere, in casa propria.