Marzo/Aprile 2002
di Biagio de
Giovanni
Il tema della Costituzione europea è irto di insidie
e di difficoltà, e l'euforia che si è creata - in maniera più o meno
artificiosa - intorno all'obbiettivo della Convenzione inaugurata qualche
settimana fa: "scrive la Costituzione europea", non sembra veramente
fondata. Aggiungo che può trattarsi di euforia assai dannosa, se le difficoltà
che insorgeranno per condurre a buon fine il compito indicato si dovessero
mostrare in modo talmente scoperto da far gridare, a lavoro compiuto, al
fallimento: il che potrebbe avvenire, soprattutto, se la Costituzione, una
volta scritta, dovesse risultare un povero documento "costituente" di
niente, e semplice vago preambolo di buone intenzioni. Come accade nelle
vicende politiche che hanno complessi risvolti intellettuali e ricadute
possibili sull'opinione pubblica, ci sarebbe sempre da trovare un equilibrio
fra i risultati immaginati e la "realtà effettuale delle cose",
proprio per impedire quell'eccesso di squilibrio fra i due livelli indicati,
che renderebbe più difficile non solo un giudizio sereno ma soprattutto la
possibilità di metabolizzarlo politicamente.
L'Europa di oggi non è più quella realtà parziale e
limitata che si disegnava in anni più lontani e direi, per indicare una data,
fino al 1989, l'anno della caduta del bipolarismo mondiale. La sua dimensione
politica è cresciuta e la costruzione europea è quindi divenuta, nello stesso
tempo, assai più problematica; all'ordine del giorno è l'unificazione del
continente, l'individuazione di obiettivi strategici in grado di collocare
l'Europa stessa dinanzi alla sfida di un mondo globale, e in modo più
stringente che mai - eppure inedito rispetto al passato più immediato - perfino
dinanzi alla questione della guerra e della pace. Cresce dunque su tutti i
piani la conflittualità fra gli Stati nella precisa misura in cui si disegna
più profondo e tuttavia problematico il piano dell'Europa politica, e si delinea
perciò la necessità di trovare un equilibrio che consenta al progetto europeo
di trovare una nuova definizione di sé. Tutto questo, da un lato spiega
l'irrompere del tema della "Costituzione", ricomparso dopo anni di
assenza per la prima volta, credo nell'ormai famoso discorso pronunciato da
Fischer, Ministro degli Esteri della Repubblica federale tedesca,
all'Università Humboldt di Berlino nel maggio 2000 e poi rimbalzato
dappertutto, dall'altro fa intendere la straordinaria complessità del problema,
il carattere del tutto inedito dello sforzo che si dovrà compiere.
In quale direzione? Personalmente non ho alcun
dubbio sull'impossibilità di "scrivere" una Costituzione europea
prescindendo dai Trattati che ne definiscono il divenire. Una Costituzione si scrive
sull'onda spesso di fatti traumatici, quando chiaro e lineare è il potere
costituente di chi lo fa, quando semplice e incontrovertibile è la forza della
sua legittimazione costituente. Non esistendo un "popolo europeo" in
che senso è possibile scrivere una Costituzione, quale significato assume
questo compito che pure è stato attribuito a un assai rappresentativa
Convenzione? Non è più rischioso che mai pensare a un referendum successivo,
ponendo a una opinione pubblica inesistente o debole una domanda posta assai
oltre lo stato della sua coscienza sul tema? Dove si trova la semplicità e
univocità e linearità del potere costituente dinanzi a quel grande mondo
"costituito" che è già l'Europa? Come è possibile trascorrere da una
dimensione pattizia ad un'altra costituzionale, senza alterare ogni equilibrio
dato? Senza mettere in discussione quella originarietà delle sovranità statali che fa da sfondo a
tutto il processo europeo? Da qui, dubbi teorici e politici che ora non è
possibile analizzare, ma che ho richiamato soltanto per cercare di individuare
il terreno concreto sul quale quel compito può diventare praticabile, che è
quello di un processo di “semplificazione” dei Trattati europei in grado di
isolare e stagliare in questo maggiore isolamento quella qualità “costituente”
dei Trattati medesimi che li ha resi cosa profondamente diversa dai vecchi
trattati del diritto internazionale classico, per far loro assumere il
significato di un originalissimo luogo di convivenza di realtà sovrane che non
hanno affatto rinunciato ad esserlo. Non è certo cosa da poco questo lavoro, ma
non corrisponde a “scrivere” una Costituzione. La Costituzione d’Europa, come
quella delle situazioni allo stato nascente, deve restare nella sua fluidità,
nella sua processualità, nel suo divenire che fa parte più di ogni altra cosa
della sua identità. Questo non significa negare la presenza di una problematica
costituzionale nella realtà europea; anzi, è proprio il contrario che intendo
affermare. Fin dall’origine i trattati che hanno dato vita a Europa contengono
in se medesimi quell’elemento “costituente” e “costituzionale” sempre assente
dalla forma classica del trattato internazionale. Pur mantenendo i trattati
carattere pattizio, la realtà che essi hanno contribuito a creare si staglia in
una dimensione oggettiva e praticamente irreversibile, che si sottrae alla
discrezionalità dei vecchi soggetti del diritto internazionale. Solo un
formalismo giuridico estraneo alla realtà può ancora contrapporre dimensione
pattizia e dimensione costituzionale come se fossero semplici realtà
alternative, come avveniva prima dell’avvio del processo comunitario.
Paradossalmente si potrebbe dire: la Costituzione europea esiste già in
nuce, consegnata fra le righe di quei trattati che disegnano la nuova
realtà dell’Europa, ma esiste in una forma che non si fissa in un ordinamento
fondato in se stesso quanto in un ordinamento di ordinamenti, in una
costituzione di costituzioni che hanno il loro medium non in un semplice
patto né nell’atto originario di un potere costituente, ma in una connessione
di ordinamenti originari e derivati che si sottrae a ogni logica tradizionale,
ad ogni tradizionale “trattato” come ad ogni tradizionale “Costituzione”. Ogni
atto giacobino che voglia in qualche modo trarsi fuori da questa realtà per
delinearne una “nuova”, non può che andare incontro a fallimento.
Tutto deve dunque cambiare, ma tutto restare entro
la continuità di un processo, che non è il gattopardesco tutto muti perché
nulla cambi ma proprio il contrario: dar nuova forma a ciò che esiste significa
infatti offrire all’esistenza una nuova forma ovvero un nuovo livello di
relazioni e di coscienza di sé. Trarre dai trattati la loro qualità
costituzionale è opera di massimo rinnovamento, è compito di massima importanza. Mutare la forma delle cose, implica mutarne
anche la sostanza, se la forma delle cose è la loro vera realtà. Ma il senso
politico dell’indicazione prescelta sta nel fatto che la realtà dell’Europa è
costituita dalla realtà degli stati nazionali e da quello spazio obiettivo e
praticamente irreversibile che essi stessi hanno contribuito a creare e che si
staglia oggi in una sua autonoma forza esistenziale. Far della Costituzione un atto a parte, è come negare la
consistenza profonda di questa dialettica, dar l’impressione di qualcosa che si
impone dall’esterno – ma come? Da parte di chi? – se si pensa che Costituzione
e Stato hanno sempre proceduto insieme nella storia europea, e che una
Costituzione senza Stato (e senza possibilità di crearne uno) rischia di
restare astrazione campata per aria, preambolo di buone intenzioni, privo di
effettualità giuridica. Ma oggi si è detto, e si è comunicato all’opinione
pubblica: ci riuniamo per “scrivere la costituzione europea”, anche se –
bisogna riconoscerlo – il documento approvato al Consiglio europeo di Laeken lo
scorso dicembre pone alla Convenzione pure molti altri compiti, e anche assai
ardui. Tuttavia, nell’opinione pubblica è passato questo messaggio, onde gran
compito della Convenzione sarà interpretarlo in modo che non si debba dire alla
fine: abbiamo fallito, con effetti devastanti su una opinione pubblica già
debole e certe volte pressoché inesistente, che immaginerà quel “fallimento”
come anticamera di crisi di tutto il progetto europeo.
C’è un elemento che può giocare a favore dell’opera
della Convenzione: la Carta dei diritti dell’Unione europea approvata a Nizza,
non inserita nei Trattati ma già operante nell’ambiente giuridico dell’Unione,
come mostra una recente sentenza della Corte di Giustizia dovuta al Giudice
italiano Antonio Tizzano. Carte dei diritti e Costituzioni si sono sempre
legate insieme, in tutta la storia dell’Europa moderna che ha interpretato fin
dal 1789 l’irrompere dei “diritti dell’uomo e del cittadino” come elemento
legittimante per il nuovo potere pubblico il quale proprio in quella
congiuntura politica e culturale incominciò ad affermarsi come realtà obiettiva
e, insieme, come modello di critica politica. L’importanza della Carta sta nel
fatto che essa parla di elementi indisponibili, giacenti nelle costituzioni
nazionali e nella coscienza pubblica europea, evidentemente sottratti a
dimensione pattizia. In questo senso, l’approvazione della Carta rappresenta un
elemento essenziale per dare più legittimità alla Costituzione europea e
ricostruire legami perduti o indeboliti fra opinione pubblica e istituzioni.
Intanto, si tratterà di portare la Carta dentro i trattati, contribuendo ad
elevarne la qualità costituzionale e a ridurre, come si diceva, la dimensione
pattizia. La Carta lascia individuare un vero e proprio modello di società,
contribuisce a costruire la forma e i principii di uno spazio pubblico
europeo in grado di dar sostanza alla cittadinanza, di ampliare le famiglie dei
diritti tutelati, far comprendere che il modello europeo ha una sua seria
specificità che sarà anche decisiva per il suo ruolo globale, per battere
l’anomia immanente al mondo globale. La Carta nei trattati è punto essenziale
per delineare la forma costituente dei trattati, ma a una condizione che vorrei
conclusivamente affermare: non si immagini una Europa protesa soltanto ad
affermare diritti, riducendo o lasciando nella confusione le politiche
possibili e sempre più necessarie, a incominciare dalla politica estera e di
difesa comuni. La preoccupante opinione, molto diffusa, per cui diritti e
sovranità politica devono reciprocamente escludersi, come se l’Europa dovesse
procedere verso una sorta di “giuridificazione” della propria realtà, una sorta
di riduzione alla comunità giuridica del proprio esistere, condurrebbe tutto in
un vicolo cieco, in una via senza prospettiva. Il rilievo, dicevo già, non è
affatto casuale; c’è in giro una preoccupante euforia sui diritti separati
dalla politica, su un’etica pubblica separata dalla storia, come se si volesse
superare la difficoltà dell’Europa politica affermando con dubbia efficacia
solo come Europa dei valori. Ma la sfida globale pone all’Europa altri compiti,
destinati a mettere insieme questi elementi che una intenzione universalizzante
tende a separare. La convenzione dovrebbe far comprendere anche questo, su
quale via l’Europa intende incamminarsi, che cosa intende veramente fare
“insieme”. Dopo la convenzione, l’Europa non sarà la stessa, ma quale sarà è
veramente difficile prevedere. Accingiamoci a seguire i lavori con attenzione
acuta e costante.