“IL MATTINO”
19 gennaio 2003
di Erri De Luca
La punta del molo di Mergellina: da una parte è un addobbo di panfili, un viale
di castelli in acqua con il fossato intorno e il ponte levatoio. Nello stagno
tranquillo stanno all’ormeggio con funi luccicanti, catene d’argento per le
ancore, oblò di cristallo. Dall’altra parte è stesa la scogliera di macigni
bianchi accatastati a diga per proteggere la ricchezza dall’assalto di onde
sobillate dal solito vento agitatore di sommosse, il libeccio del sud. Con
tutta la furia che ci mette, con la cavalleria di ondate che schizzano manciate
di sale fino in collina, non spostano e non turbano di un’oscillazione il
bicchiere di vino sulla tavola dei panfili. Per dispetto il libeccio urla alle
sartìe e alle bandiere panamensi dei castelli in acqua la sua forza di sud, di
deserti e scodelle vuote, di pozzi asciutti e beduini magri: «Vi aspetto fuori,
al largo!». Ma i signori e le dame al riparo della diga, con le funi d’ormeggio
tirate a tutti giri di bitta, saldi e appena cullati dalle ondine che
increspano lo stagno della baia, sorridono allo sforzo delle ondate. Quanto
spreco, dice la più saggia, lascia che si sfoghi, dice lui vestito da
ammiraglio, il popolo arruffato dal ventaccio, è folla ingenua di onde che
vanno a disfarsi contro la scogliera mentre il vento sovversivo che le muove,
resta sempre illeso.
Così un ragazzo immaginava i discorsi dentro le dimore galleggianti all’ancora,
mentre da tutto il fronte del golfo avanzano le linee delle ondate. Sta lì da
solo in cima al molo: caricano a colpi d’ariete, cozzano contro i macigni
bianchi e si sfracellano spargendo il loro bianco a schiuma dappertutto. Il
ragazzo sa che il mare è bianco, quello è il suo colore vero quando si apre,
spacca sotto una prua o nel vento, per esempio quello di tramontana che
scortica di bianco ogni cresta di onda. I signori e le dame aspettano la fine
della sommossa, che il mare ritorni al suo colore azzurro che si sdraia sotto i
cavalli motore, le vele gonfiate, gli sci ai piedi. Il ragazzo va al molo
quando il mare è bianco. Per lui il libeccio è Masaniello, porta un popolo di
onde che non si spaventa dei gendarmi bianchi allineati, tutt’un pezzo di
calcare squadrato a frangiflutti. Sia fatta la volontà del vento, è finita
l’estate e la bonaccia, è tempo di acque mosse, nel golfo sbattono le prore, il
mare è una salita dove s’alzano e s’abbassano le schiene dei battelli. I
pescatori hanno le barche in secco, i panfili danno sdegnosi la poppa alla
tempesta.
Il cielo è basso e pesa, chi non sta chiuso in casa è gobbo in strada.
Il ragazzo cerca di star dritto, però pende un poco contro il vento. Il
libeccio al molo di Mergellina è una chiamata per il ragazzo che cerca il punto
di scardinamento della città, dove frana il governo degli uomini sulla vita
intera. In montagna è la neve, la scorza di ghiaccio che protegge e separa la
terra da noi. Lì è il libeccio che prende a schiaffi e spinte balconi e
cornicioni, terrazzi con melloni appesi e l’ultima spuntata del basilico. Imbottito
di panni si stacca dalle retrovie delle strade e va davanti al vento sulla
prima linea del molo. Così volta le spalle alla città e quella non c’è più,
smette tutta intera, nessun rumore dalla più famosa per il chiasso. Unico
chiasso è il tuono delle acque, il risucchio di ondata che rincula e s’impenna
prima di scagliarsi, si solleva più in alto che può col vento che la spinge,
l’incita, l’avanza e fa il rumore del mondo senza noi. Un ragazzo poteva
scendere a Mergellina, traversare la strada e andare sopra il molo in faccia
alla forza pura della marea in subbuglio. L’energia marina caricava a mandria,
a corna basse la linea di difesa delle terre emerse. L’ondata ringhiava
compressa, scaraventando secchiate di tempesta oltre i macigni, un ragazzo poteva
fare finta di avere a fianco Manuèl e essere mozzo a bordo del libro: «Capitani
coraggiosi».
Solo di fronte alle tempeste un ragazzo sogna di diventare marinaio. È così per
il fuoco, solo l’incendio lo spinge a immaginarsi addosso i panni dei pompieri.
La punta del molo di Mergellina all’ora furiosa del libeccio era capo Horn,
onde balene e frustate di salmastro. Al ragazzo saliva un rigurgito di gridi
trattenuti in gola, soffocati nel fondo dei sonni. Risalivano alla superficie
del suo fiato e poteva rispondere al libeccio con grido cupo, senza vocali e
senza ascolto, un grido di acca muta, unica lettera ribelle di tutto
l’alfabeto, senza suono. Lì lo aveva, era un urlo scosso dalle ossa, passava la
serpentina della spina dorsale dal coccige al cranio, spalancava la bocca a
braccia aperte.
In punta al molo di Mergellina dove una breve rotonda contiene un faro basso,
un ragazzo era prua di niente, caldo di gridi suoi che rispondevano ai colpi
delle onde andando a rima e ritmo. Diventava rauco e quando poi smetteva aveva
respirato il mare, e i suoi polmoni erano diventati branchie.
Non c’erano gli innamorati, sul lungomare, neppure gli atleti che vanno al
trotto agili, non si vedeva sulla scogliera un solo rifiuto abbandonato, che
era spazzata con la scopa di ferro, ripulita da impronte. Le raffiche portavano
un ossigeno vergine, non ancora passato in nessuno fiato, non ficcato in
nessuna emoglobina, dava alla testa e ai piedi la certezza di essere lontani.
Come fa la neve coi prigionieri in cella, come la notte ai ciechi.
Nel golfo le petroliere aspettavano alla fonda di essere svuotate, la
portaerei della sesta flotta lasciava il ponte sgombero, era una strada vuota,
cominciata e finita senza proseguire. Viste da terra le navi hanno una
solitudine di chiese. La chiamata ribelle del libeccio entrava in testa al
ragazzo fino alla dura madre del cervello: solo così puoi cavarti dal campo,
estrarti come un cespo di friarielli e andartene a friggere altrove.
Bisogna essere stati nel libeccio per riuscire a strapparsi dal posto
senza lasciare un resto. Bisognava la punta del molo di Mergellina, il sale in
gola, le spalle alla città, le braccia aperte e vuote ad aquilone, ma senza lo
spago. Un ragazzo ha bisogno di essere fradicio, di non avere in sé niente di
asciutto. Pochi ragazzi hanno avuto la fortuna di avere la punta di un molo per
addestrarsi allo spaesamento. Si sono arrangiati con altre sostanze, si sono
dannati con più solitudine. Finché il ragazzo stava sul bordo d’infilata del
libeccio, non poteva crollare. Da quell’equilibrio ha imparato poi a camminare
sulle creste affilate delle cime dei monti, una gamba a destra e una sinistra
di due vuoti. A cavallo della cornice di neve compattata dal vento, ha salutato
il molo delle ondate. Era arrivata a cavalcarne una, a stare in sella al bianco
che è la loro verità.
Da qualche parte il ragazzo è diventato adulto e una sera gli piglia,
perché ha fame, non appetito, fame ed è giusto che la conosca allora e non da
vecchio, insomma in qualche sera di stomaco e di coscienza vuota, pensa a dove
si è staccato, da che punto. Allora ricorda il molo, il suo libeccio, con un
risentimento di coscienza e di fame, che qualche volta possono essere la stessa
cosa e stare nello stesso posto, e rifarebbe al contrario il percorso del molo,
entrerebbe nell’osteria che sta all’interno del mercatino della Torretta e si
siederebbe a mordere una pagnotta scavata a scodella e riempita a friarielli.
Dal libro di esordio del 1989, «Non ora, non qui», Erri De Luca, oggi
cinquantaduenne, ha definito un ricco percorso di scrittura che dalla narrativa
lo ha portato alla puntuale frequentazione della pagina biblica fino al recente
approdo poetico. Se «Montedidio» è il suo ultimo romanzo (Feltrinelli, 2001),
«Opera sull’acqua» invece rappresenta la sua prima raccolta di versi (Einaudi,
2002) e «Vita di Sansone» (Feltrinelli, 2002) la traduzione biblica più
recente. Alla casa editrice napoletana Dante & Descartes ha affidato le
«Lettere da una città bruciata» (2002). Collabora
al «Mattino».