“IL MATTINO”
10 gennaio 2003
di Franco Cardini
La prima regola è che bisogna fidarsi delle leggende: nascondono sempre molte
più realtà di quante non credono i razionalisti. La seconda è che non bisogna
mai fidarsi troppo delle leggende: sono un frutto avvelenato, dalla polpa
menzognera e la cui verità sta solo nel nocciolo. La terza è che non bisogna
fidarsi nemmeno dei razionalisti: molti dei quali, increduli e scettici finché
qualcosa non li tocca da vicino, se poi un tavolino si mette a ballare in loro
presenza si convertono a tutti gli dèi e a tutti i demonî dell'umano pantheon.
Le «storie» di re Artù, dei Cavalieri della Tavola Rotonda e del Graal
cominciano a circolare nell'Europa del XII secolo: le diffuse un
poeta-romanziere della Champagne, che forse le aveva sentite raccontare da
cantastorie bretoni, depositari di tradizioni orali celtiche provenienti
dall'Oltremanica.
In effetti sappiamo che l'antica Britannia, oggi Inghilterra, era abitata da
popolazioni celtiche affini ai galli conosciuti da Cesare. La Britannia fu
conquistata dai romani fra I e II secolo d.C.: i celti resisterono, ma finirono
col fondersi con i conquistatori e nacque anche una discreta aristocrazia
celtoromana. Gli irriducibili si rifugiarono in Caledonia (Scozia) e in Ibernia
(Irlanda). Tra i galli continentali dell'odierna Francia e i celti insulari il
cristianesimo si diffuse durante i secoli IV e V. Verso al metà del V secolo,
però, la Britannia fu invasa da genti germaniche pagane: angli, sassoni,
frisoni, juti. A causa di loro e del loro idioma l'isola si sarebbe poi
chiamata Inghilterra. Anche fra gli invasori germanici si sarebbe diffuso il
cristianesimo: non prima però dei secoli VII-VIII.
A quel che sembra, comunque, l'invasione germanica fu dura per le genti
celtoromane: alcuni si rifugiarono in Ibernia o nell'ovest della Britannia, tra
Cornovaglia e Galles. Altri preferirono passare il mare e rifugiarsi in
Armonica, che da quei britanni esuli assunse il nome di Bretagna: e forse
portarono con sé nel continente, fra le altre cose, i canti epici che onoravano
la resistenza di un capo celtico o celtoromano, conosciuto come Ambrosius ma
anche con un nome celtico che richiamava l'animale-totem, l'orso (greco
Arktos).
Quel celta dal nome d'orso che dette filo da torcere ad angli e sassoni
nella seconda metà del V secolo è forse il personaggio storico da cui uscì la
memoria leggendaria di «re Artù». Mentre il misterioso celta-romano Ambrosius è
identificabile forse con lui, forse con un druido - magari convertito al
cristianesimo - che noi conosciamo come «mago» Merlino.
Le gesta di Artù, di Merlino, della regina Ginevra e dei cavalieri
della Tavola Rotonda (figure tutte attorno alle quali si è esercitata con
fatica la critica filologica e archeologica: a parte le ricostruzioni
appassionate ma poco affidabili degli amateurs) sono state propagandate nel XII
secolo anche grazie al favore della dinastia dei Plantageneti - re
d'Inghilterra, duchi di Normandia e d'Aquitania, conti del Poitou -, che in
conflitto con gli imperatori romano-germanici e i re di Francia necessitavano
di un loro forte culto dinastico. Se i sovrani germanici e francesi si
riconoscevano nel culto e nella leggenda di Carlomagno, fu Enrico II
d'Inghilterra, appoggiato dai monaci benedettini dell'abbazia di Glastonbury, a
fondare il culto di Artù che i romani cavallereschi avrebbero diffuso.
Una delle più celebri residenze di Artù, secondo la leggenda, era la corte
ch'egli teneva nella rocca di Tintagel in Cornovaglia. Vicino ad essa - molti
sono gli archeologi, professionisti e dilettanti, che si sono cimentati nel
cercare tracce storiche del sovrano leggendario - esiste anche una grotta,
naturalmente conosciuta come «di Merlino», nella quale anche in passato è stato
fatto qualche ritrovamento.
È di questi giorni la notizia secondo la quale in tale luogo sarebbe venuta
alla luce una tegola di terracotta databile al V-VI secolo recante la scritta
latina, con influenza celtica, «Pater Coliavi ficit Artognou», che i celtisti
dell'Università di Glasgow interpretano come «Artù, padre della discendenza
(clan) di Coll, ha fatto» (nel senso: ha fatto fare quest'oggetto).
Ecco che vanno prese le distanze dai cultori sia della «realtà» delle
leggende, sia della loro negazione razionalistica. La tegola, 6 centimetri per
10, è un piccolo oggetto d'uso rinvenuto in una discarica e usata, sembra, per
una riparazione di fortuna. Si tratta di un riuso d'un manufatto, l'iscrizione
del quale non ha alcun valore religioso e - poiché è stata apposta su un
oggetto privo di valore artistico - non può essere nemmeno interpretata come la
firma di un artigiano. Si tratta dunque di un'indicazione di proprietà,
qualificante con molte probabilità la persona - un signore laico - alla quale
apparteneva l'edificio o il manufatto nel quale la tegola era inserita. Ma chi
ci dice che Artognou era proprio Artù, quell'Artù, il re della leggenda? Si
tratta di un nome prima altrimenti sconosciuto o del quale esistono altre
attestazioni? Notte e nebbia. Come al solito, storia e archeologia risolvono un
problema solo a patto di aprirne altri dieci.
Questo comunque ora con certezza sappiamo. Nella Cornovaglia
altomedievale, presumibile teatro storico di quella leggenda cavalleresca
elaborata quasi mezzo millennio più tardi in Francia, un nome simile a quello
di «Artù» effettivamente circolava. È poco per poterne dedurre alcunché; è
troppo per continuare a guardare con scetticismo all'ipotesi che le gesta del
Sire della Tavola Rotonda riposino su una base veritiera. Volete sognare?
Accomodatevi. Siete delusi? Continuate a studiare, senza troppa credulità e con
poco scetticismo.