14 aprile 2004
di Anna Merlo
“Noi donne e uomini di cultura musulmana – credenti agnostici. Atei – denunciamo con la massima energia le dichiarazioni e atti di misoginia, di omofobia e dirantisemitismo fatti in nome dell’Islam”: così inizia il Manifesto che in poche settimane ha già raccolto anche qualche centinaio di firme in Francia e che è stato pubblicato prima sul quotidiano francese Libération e ora anche sul quotidiano marocchino di sinistra omonimo. A firmare il Manifesto, avvocati, medici, sindacalisti, intellettuali, professori. Ora molte associazioni di quartiere chiedono riunioni pubbliche con i promotori, perché interessato all’iniziativa. E’ la prima volta che la società civile francese “di cultura musulmana” prende la parola per denunciare le derive che dipendono da un’interpretazione radicale dei dettati religiosi. Una risposta all’accusa ricorrente: voi musulmani non dite mai nulla contro le derive comunitariste e le violenze, a cominciare dall’antisemitismo. Un percorso difficile per i firmatari, come testimoniano le spiegazioni di Tewfik Allal, sindacalista, tra i promotori dell’iniziativa e di Wassyla Tamzali, avvocata d’Algeri che vive tra il suo paese e Parigi, ex direttrice del diritto delle donne all’Unesco.
“E’ un testo che mira a indicare campi quasi oscuri della coscienza della gente di cultura musulmana o abitanti di paesi di cultura islamica: il problema, infatti, riguarda anche i cristiani della regione”, spiega Wassyla Tamzali. Questo perché il passo più difficile è guardare le cose in faccia e dichiararle: “C’è una decadenza della cultura musulmana, e che è diventato il luogo di tutte le nevrosi identitarie: vecchia colonizzazione, governi repressivi, religione che fa presa soprattutto tra i poveri”. Di qui l’importanza di una presa di parola attraverso il Manifesto – insiste Wassyla Tamzali – che parla della “libertà di coscienza, cosa molto importante per i nostri paesi arabo-musulmani dove c’è il totalitarismo religioso e dove l’apostasia è un delitto e l’apostata ‘ condannato a morte”. Per chi è di cultura musulmana firmare il testo che difende la libertà di coscienza è un atto di estrema importanza, poiché equivale a puntare il dito su un anello che il mondo musulmano non può saltare, ma deve prendere a prestito dalla cultura giudaico-cristiana: la modernità, la libertà, i diritti degli uomini e delle donne. “non mi sento colonizzata se faccio questo passo”, aggiunge Wassyla Tamzali, che viene da una famiglia che ha lottato per l’indipendenza dell’Algeria.
Il manifesto, per i promotori,
vorrebbe essere un po’ l’inizio di un ’68 della cultura arabo-musulmana per
passare, come dice Wassyla Tamzali, “dalla lotta di liberazione, che si
occupava allora, a quella per la libertà”. Per Tewfik Allal, “se non pensiamo
la libertà andiamo verso
Una lotta per la libertà, per di
più che “si esprime soprattutto contro la propria tribù”, intendendo per tribù
il peso della comunità, delle tradizioni, la marginalizzazione dell’urbanità,
il soffocamento della nozione di cittadino. Wassyla e Tewfik usano lo stesso
termine per descrivere i rispettivi cammini: “Solitudine”. E il Manifesto
sarebbe “l’incontro di queste solitudini” e al tempo stesso la scoperta che è
possibile uscirne. Per questo, il Manifesto prende posizione a favore della
neutralità della scuola, dove i segni di appartenenza religiosa restano
banditi. Wassyla Tamzali è molto ferma sulla questione del velo: “Sono stupita
dalle prese di posizione a favore del velo da parte di alcune femministe. Fanno
del razzismo al rovescio, perché considerano che l’islam sia fuori dal
pensiero. Hanno ben lottato contro la chiesa cattolica per il divorzio e
l’aborto! L’islam, invece, sembra essere l’impensato occidentale”: il secondo
obiettivo del Manifesto, dopo l’affermazione della libertà di coscienza, è la
lotta contro l’islamofobia. “Anche noi – spiega Wassyla Tamzali – siamo uomini
e donne liberi. L’islam non è un modello a parte, la società musulmana deve
essere pensata come le altre, non c’è un modello genetico arabo-islamico.
La forma per lottare contro
l’estremismo alla Tariq Radmadan – che propugna un modello fascista,
discriminazione – è lottare per far valere che siamo parte di noi
dell’avventura umana”.
Il terzo obiettivo del Manifesto
è avere “un impatto su popolazioni che sono preda del fanatismo religioso, in
particolare giovani delle banlieues e associazioni di territorio”. Soprattutto
in questi ambienti, i temi toccati dal Manifesto sono una vera e propria sfida:
misoginia, antisemitismo e omofobia. I ragazzi delle banlieues si sentono
vicini al popolo palestinese e così avanza l’idea di in complotto
internazionale. Aprire una discussione sull’antisemitismo è uno dei principali
impegni dei promotori del Manifesto. Anche la battaglia contro la diffusione
omofobia fa parte, spiega Tewfik Allal, della “battaglia per la libertà, in
questo caso quella di riappropriarsi del proprio corpo”. Ma sul quotidiano
marocchino Libération, il testo del Manifesto è stato amputato di questa
parte, considerata troppo avanzata.