13 luglio 2004
Oltre
il velo, l’Islam delle artiste
di Lucia Licciardi
Accostarsi all’arte islamica non è semplice per la cultura
occidentale. L’intima unione esistente fra operazione estetica e fede che
caratterizza persino le opere degli artisti meno ortodossi rispetto al precetto
fatto risalire al profeta Maometto di avere espressioni artistiche non
figurative e anti-naturalistiche rimane un territorio nel quale il viaggiatore
rischia di avventurarsi senza frutto. Ancora di più, l’accostarsi a uno stile
sempre e comunque sobrio diventa difficile quanto all’esperienza estetica si
potrebbe sovrapporre il pre-giudizio di «una delle peggiori conseguenze» dei
terribili eventi dell’11 settembre 2001, la costruzione nella pubblica opinione
di «un’immagine falsa e negativa dell’Islam», come sottolinea in un messaggio
la regina Rania di Giordania. È lei in prima persona a rivelare uno degli
obiettivi principali della collettiva che da ieri fino al 15 settembre prossimo
nella Sala d’Ercole di Palazzo Reale permette di visionare sessanta tra le più
significative opere di donne artista di tutto il mondo islamico.
«Stracciando i veli», appuntamento con il quale la
Fondazione Laboratorio del Mediterraneo presieduta da Michele Capasso ha inteso
celebrare il suo decennale, può «squarciare il velo» su un’arte ancora poco
conosciuta, su stereotipi che spesso contribuiscono a rigettare altre culture
senza nemmeno tentare di avvicinarvisi con mente e animo sgombri.
Perché l’arte, ricorda Ranja di Giordania nel suo
messaggio di presentazione dell’iniziativa, è «al di sopra delle differenze di
sesso e di età, di storia, di cultura, e di religione»; pur essendo «tutti
definiti da queste, rimaniamo tutti colpiti dai capolavori con cui gli artisti
hanno arricchito il nostro mondo». L’operazione della Fondazione Laboratorio
Mediterraneo, che aveva già ospitato a Napoli la bella regina giordana nel
settembre 2001, dunque, diventa un contributo alla pace utilizzando il
linguaggio più universale, quello dell’arte appunto. La mostra ha già avuto una
prima edizione nel 2002 a Rodi, in Grecia, ed è organizzata dalla Royal Society
of Fine arts di Amman, presieduta dalla sorella del defunto re Hussein, Wijdan
Ali, presente alla inaugurazione con Capasso, gli assessori regionale alla
Cultura (Teresa Armato) e provinciale alla Scuola (Angela Cortese) e altri
esponenti della Fondazione Laboratorio Mediterrano, fra cui Nullo Minissi e
Claudio Azzolini, oltre a tanta gente che ha ammirato i lavori in mostra. I
generi artistici sono tutti o quasi tutti rappresentati. Pittura, con tele a
olio o tempera, scultura, fotografia, collages, incisioni e acqueforti
convivono sotto un’unica matrice comune delle artiste, l’essere rappresentanti
dell’Islam; di una religione che è, come indica la parola stessa
«sottomissione», ma non solo alla fede in Allah, quanto forse piuttosto ad una
vocazione che conduce alla ricerca di sé attraverso gli strumenti offerti
dall’arte, per poi comunicare attraverso questi emozioni e conoscenza.
L’itinerario si snoda sondando diverse generazioni, da quella più anziana
rappresentata dalla turca Faherlissa Zeid, classe 1901, alla 32enne giordana
Karima Bin Othan, passando attraverso il Libano di Etel Adnan, l’Egitto di
Marian Abdur, la Palestina di Rana Bisham. Fondamentale, per molte delle
artiste che espongono, è anche il rapporto con la cultura occidentale che hanno
maturato nel corso di studi all’estero, soprattutto nelle accademie italiane.
In un caso, quello di Lisa Fattah, è la matrice culturale di partenza, dato che
l’artista è svedese e il suo rapporto con l’Islam comincia nel matrimonio con
un artista iracheno conosciuto all’Accademia di Roma.
Conoscerci e capirci, frequentarci e amarci, anche e
soprattutto attraverso l’arte: «Si deve tendere a questo, anche quando - ha
sottolineato la principessa Wijdan Ali - come in questo scorcio di anno, nel
Medio Oriente non va avanti la forza delle idee ma quella delle armi» invece
del riaprirsi di un «dialogo fra le culture». E la mostra, curata dalla greca
Aliki Machif-Guaget, viene dedicata da Michele Capasso «a una giornalista
iraniana, morta l’altro ieri in carcere a Teheran. Lei voleva venire qui e
scrivere un articolo su questa occasione d’incontro delle culture».