29 luglio 2004
RAMALLAH – Lo combattono. Lo processano. Lo chiamano “il muro dell’apartheid” (Abu Ala) e il “muro del razzismo” (Arafat). Ma quella barriera illegale per l’Onu che dividerà lungo 700 chilometri Israele dai palestinesi, che s’incunea in profondità nei loro territori, è pur sempre un business da un milione di dollari al chilometro. La Grande opera del Medio Oriente, un affare troppo ghiotto per non provare a prendervi parte.
Da tempo, corrono voci (e tali
restano, per il momento) che il premier palestinese Abu Ala abbia contribuito a
cementizzare il confine. Ora però c’è la prova che esponenti di spicco
dell’establishment di Ramallah hanno venduto agli israeliani migliaia di
tonnellate di cemento per costruire la barriera. È contenuta in un rapporto del
Parlamento palestinese, trasmesso alla magistratura, che delinea i contorni
dell’affaire: oltre 5 milioni di dollari di ricavo, 5 compagnie
palestinesi coinvolte, due ministri implicati e sospetti che lambiscono un nome
eccellente: Mohammed Rashid, il “gran tesoriere” di Arafat. Una serie di
documenti – il rapporto, permessi del governo, lettere al presidente Arafat, a
cui il Corriere ha avuto accesso – permettono di ricostruire questo
“scandalo al cemento”.
Ci sono in questa storia alcuni dei nomi più importanti dell’economia palestinese. Ovvero del governo. Perché, come dice lo storico Markus Bouillon, forse il maggiore esperto di economia israelo-palestinese, “i “tunisini” (gli uomini che hanno condiviso l’esilio con Arafat, ndr) non formano solo l’elite politica. Tornati a Ramallah, hanno fondato le loro compagnie monopolizzando gli scambi con Israele, proprio grazie alle relazioni instaurate durante il processo di pace”. In un certo senso, il “cemento” è il proseguimento degli affari iniziati ai tempi di Oslo.
Egitto, aprile 2003.
L’imprenditore con passaporto tedesco, di origine ebrea, Zeev Pelsinky –
proprietario di tre diverse ditte in Haifa – acquista dalla società egiziana
Egypt Bany Swif 120.000 tonnellate di cemento. Tutto fila liscio, finchè il
caso viene fiutato dal giornale Al Arabi. I “Comitati contro la
normalizzazione con Israele” denunciano la “collaborazione” egiziana nella
costruzione del “muro razzista”. Interviene il governo, la vendita viene
bloccata. Ma Pelsinky non si dà per vinto. E se per continuare a importare
cemento in Israele – è la pensata – lo si facesse passare dai Territori
palestinesi?
Pelsinky si rivolge ad alcuni. In particolare, al Ministro degli Affari Civili, Jamal Tariffi. La sua famiglia possiede due delle maggiori compagnie di cemento palestinesi, Tariffi Company (di proprietà del fratello Jamil), e Qandeel Tariffi Company For Cement. Il 30 settembre, Jamil Tariffi e Zeev Pelsinky si incontrano al Cairo: firmano un contratto per importare 20.000 tonnellate di cemento. Occorre un permesso del Ministero dell’Economia palestinese, che certifichi che il carico non finirà in Israele: Tariffi lo porta con sé. È stato firmato a casa sua dal Ministro dell’Economia, Maher Al Masri, rampollo di una delle grandi dinastie commerciali palestinesi. Il tipo di cemento è “Port Land International”. Come quello usato per costruire la barriera.
Quando i giornali egiziani cominciano a parlarne, anche a Ramallah qualcuno si muove. Hassan Khreishe, noto critico della corruzione nell’Autorità Palestinese, vicepresidente della Camera, ottiene di istituire una Commissione d’inchiesta. Sette mesi di lavoro. Secondo il rapporto finale della Commissione, 420 mila tonnellate di cemento tipo Port Land sono state importate dall’Egitto nei Territori: di questo, solo 33 mila sono state impiegate per usi civili, il resto è stato rivenduto agli israeliani. Oltre alle società di Tariffi e quelle dell’imprenditore di Gaza Yousef Barakeh, nell’export egiziano entra anche la Società generale dei Servizi commerciali palestinesi, sorta di finanziaria statale ad uso del “Gran tesoriere” di Arafat Mohammed Rashid, unico che abbia, si dice, accesso ai suoi conti. Però il rapporto – per mancanza di fatti e di coraggio – non lo lega a Pelsinky né ad altre società impiegate nella costruzione del muro.
Si tratta di cemento pagato al Cairo a costi calmierati, proprio per gli accordi di Parigi (1993) tra Israele e i palestinesi, che avrebbero dovuto agevolare la cooperazione nella regione e aiutare la ricostruzione nei Territori: 22 dollari a tonnellata, quando lo stesso materiale viene venduto al Sudan al “prezzo agevolato” di 26 dollari. I palestinesi, per i loro servizi, hanno chiesto il 50%: dai 12 ai 15 dollari a tonnellata. Facendo due calcoli, intascano 5,6 milioni di dollari. Chiaramente, esentasse. Mentre i camion passavano alla dogana, nessuno si è ricordato di versare 1,7 milioni do dollari alle casse Ramallah.
Ora è tutto cemento per il muro?
Pare di no. Il rapporto però nota singolari coincidenze: per esempio, che due
grandi commesse furono consegnate in ottobre-novembre, “mentre sul mercato
israeliano il cemento scarseggiava”.
In una lettera dell’11 settembre 2001, il capo dell’ufficio di controllo del governo, Jarar Al Qidweh, scrive al rais: “Eccellenza fratello presedente. Il fratello Maher Al Masri, Ministro dell’Economia, ha firmato un permesso di importare 20 mila tonnellate dall’Egitto. I nostri fratelli egiziani ci hanno trasmesso il loro sospetto che il cemento possa raggiungere l’altra parte. Abbiamo scoperto che il cemento arriva al valico di Oja. Lì il carico viene trasferito sul nome di un businessman israeliano e portato subito alle aree della Linea Verde. Abbiamo scoperto che il cemento è composto in modo tale da venire usato per le lastre di cemento del muro di sicurezza israeliano”.
E che cosa fece Arafat? Disse ad
Abu Ala, assicura Al Qidweh di investigare. Intanto, il 23 febbraio, mentre
all’Aja montava il Processo contro il muro, il ministero rilasciava un nuovo
permesso per un carico dall’Egitto.
Ramallah, Grand Hotel Park.
Hassan Khreishe, il deputato che per 7 mesi si è battuto per fare emergere lo
scandalo, consegna una domenica di fine giugno a due uomini 4 faldoni rossi e
blu. Sono gli assistenti del procuratore generale. “Non mi fidavo – dice adesso
al Corriere -. Il materiale raccolto lo abbiamo affidato al premier Abu
Ala, perché lo trasmettesse al giudice. Solo che alcuni video si sono persi per
strada. Così, glieli ho portati io”. Khreishe sa che la sua battaglia può
prestarsi a giochi politici. “Mi hanno minacciato. Ma non credo di rischiare la
vita – dice. Bastano altri modi per fermarmi”. Non è un ingenuo, nemmeno un
santo. Sorride. “E pensi che, mentre nessuno muoveva un dito contro i
capitalisti palestinesi, abbiamo arrestato alcuni poveracci che facevano i
manovali sotto il muro. E li abbiamo pure chiamati collaborazionisti”.