Obiettivo precipuo è stato quello di cogliere lo specifico teorico e
metodologico di un intervento declinato in termini di empowerment: ciò ci ha
consentito, ad esempio, di comprendere il tipo di formazione proposta dalle
diverse agenzie di formazione, differenziandole in maniera critica, nonché di
specificare i confini della formazione innovativa e di qualità, insomma la
formazione semplicemente ben fatta, dalla formazione intrisa in qualche misura
di "empowerment". E’ necessario:
• recuperare la portata
rivoluzionaria, ampiamente sottoutilizzata, di quei programmi di sviluppo
contenuti nei manifesti ideologici dei movimenti della Democrazia Industriale
dei paesi scandinavi, della QWL (Quality of Working Life) piuttosto che
dell'O.D. (Organization Development)
• rilanciare, sotto nuovi nomi,
approcci alla formazione e all'intervento organizzativo che appaiono tuttora
essenziali e non sono ancora "passati" nella pratica (ad esempio la
consulenza di processo di Schein; la ricerca-azione di Lewin e l'action science di Argyris e Schön)
Se traduciamo letteralmente il verbo inglese to empower con "potenziare, mettere in grado di", parlare
di "empowerment" per la formazione equivale a produrre una
tautologia, rendendo un ennesimo omaggio all'imperialismo anglosassone, di cui
non cogliamo l'utilità e la necessità. Perché scomodare un nuovo vocabolo, per
di più inglese, per qualificare il ruolo della formazione? Quale dovrebbe mai
essere se non quello di mettere in grado, accrescere le competenze, aumentare
le cosiddette chances de vie e
tradurle in realizzazioni, sviluppando un apprendimento individuale che, nel
caso della formazione interna ad una organizzazione, abbia l'energia e trovi le
condizioni per tradursi in apprendimento organizzativo? Pure tautologico è
pensare e descrivere il soggetto destinatario di un progetto formativo nei
termini di un individuo "mancante" e quindi in qualche misura disempowered. Il ricorso alla formazione,
anche se spesso presentato difensivamente come desiderio di confronto,
verifica, arricchimento, acquisizione di nuovi modelli, piuttosto che approcci
o teorie, tradisce spesso il sentimento di "mancanza",
"inadeguatezza", il sentimento appunto di chi non si sente "in
grado", magari con riferimento agli alti e ambiziosi livelli con cui si
identifica e cui anela. Ma perché dovremmo avere bisogno di parole nuove quando
mi sembrano più che sufficienti quelle tradizionali?
Se traduciamo invece il verbo inglese "to empower" con
"insinuare e moltiplicare le possibilità", diventa altrettanto e più
ridondante il ricorso al termine per tutte quelle iniziative che sono
semplicemente (ma non certo banalmente) tese a stimolare intellettualmente, a
volte attraverso suggestioni teoriche di tipo contaminativo: non intendiamo qui
sottovalutare il peso, il significato e il valore della formazione impegnata ad
accrescere le possibilità, facilitare l'insorgenza del nuovo, immettere nel
tessuto personale e/o organizzativo grani di germinabilità. La coerenza
linguistica interna ne uscirebbe peraltro indebolita là dove volessimo, per
estensione, dichiarare il soggetto destinatario di tale tipo di iniziative
"disempowered" (o a rischio di). Siamo in tal caso, infatti, di fronte
ad un soggetto (e ad un suo eventuale committente) che rappresenta l'immagine
contraria: un individuo ambizioso, teso verso la massimizzazione delle proprie
possibilità, desideroso di assicurarsi un futuro sempre più innovativo e
dominante.
Pur nutrendo nostalgia per questa formazione "possibilitante",
non arrivo però a giustificare una nuova etichetta per descrivere le funzioni
di una formazione in cui continuo personalmente a credere: è per questo che
condivido l'etichetta putdownismo
attribuita, con evidente connotazione negativa dalla letteratura anglosassone,
al fenomeno di far discendere, da concetti base, sotto-concetti sostanzialmente
ripetitivi, riducendone così portata e pregnanza. Con la mia argomentazione
intendo quindi denunciare un utilizzo del costrutto a carattere
prevalentemente, quando non esclusivamente, illusionistico (l'illusione di aver
trovato un nuovo modo di fare la formazione), se non retorico o semplicemente
commerciale e strumentale. Il fenomeno di un utilizzo estensivo del costrutto
di empowerment, per sostanziali ragioni di moda, ci sembra infatti
inappropriato e indebito, oltre che inutile, quando esso sia riferito a
soggetti diversi da quelli per i quali è stato pensato, riducendo così la sua
identità, la sua unicità e consistenza interna: individui appunto in qualche
misura depowered (o a rischio di),
privi o privati di potere, resi o resisi impotenti, persone portatrici di
qualche handicap (fisico o morale), soggetti cui non è stata data (o è stata
tolta) la parola, senza voce o con voce fattasi flebile.
Con riferimento a questa categoria di persone il costrutto
dell'empowerment ha manifestato ai nostri occhi, nel corso del master, tutta la
sua qualità intrinseca, la sua forza e pregnanza: nato infatti all'interno di
discipline impegnate socialmente (politologia, movimenti femministi e studi di
genere, psicoterapia, psicologia di comunità, pedagogia degli oppressi,
fisioterapia), le piattaforme teoriche e metodologiche relative all'empowerment
messe a punto dagli studiosi e dagli operatori interessati a questi
individui si rivelano pertinenti per
chi opera in quei contesti sociali e istituzionali (comunità, O.N.L.U.S.,
associazioni e organizzazioni non profit al servizio di soggetti bisognosi di
cura, cooperative sociali di tipo b, la scuola, distretti e presidi sanitari,
centri di riabilitazione, etc.) che prendono in carico i portatori di handicap
in tutte le sue forme, il disagio, lo svantaggio piuttosto che l'emarginazione
personale o sociale (o il rischio di) di un soggetto o di un gruppo.
Le condizioni alle quali il riferimento al costrutto di empowerment
appare perciò pertinente sono:
• l'assunzione consapevole del
tema della powerlessness, reale o
potenziale, di soggetti, gruppi ed organizzazioni, nell'ottica del rafforzamento
o del recupero del loro empowerment
• la considerazione e
l'attenzione analitica al tema centrale del costrutto ovvero al potere, ai modi
del suo esercizio e della sua distribuzione e l'impegno a ristrutturare in modo
radicale la sua concezione a favore dell'ideologia e della teoria del potere
proposte e operazionalizzate da parte di quegli studiosi dell'empowerment che
non hanno solo tentato di tematizzare il potere proponendone una determinata
concezione ma si sono battuti per testimoniarla.
Là dove sia questo il caso, la declinazione del concetto di empowerment
può rivelare molteplici sfaccettature ma comunque presentare tre tratti
trasversali sempre presenti ovvero:
• un'ideologia che, trovando il suo fondamento nella teoria sociale critica,
è profondamente democratica, emancipatoria, liberatoria dalla dipendenza quando
non dalla schiavitù, sia essa economica, morale, intellettuale in cui versano
individui in qualche misura sottomessi, assoggettati, privati, anche solo
parzialmente, della loro autonomia e libertà, dei loro diritti. Persone non
in grado di governare la propria vita, dominare gli eventi da cui si sentono
invece dominati, versando in una situazione di dipendenza passiva e passivizzante
quando non di impotenza (learned helplessness)
• una condizione esistenziale, cognitiva
e affettiva non permanente (da conquistare e mantenere nel tempo): quella
di chi si sente in situazione di controllo degli eventi, domina le variabili
del suo contesto, percepisce se stesso come libero, autonomo, in una parola
"autoefficace". Come vedremo, non parliamo della condizione di un
soggetto che nutre autostima, concetto a mio parere troppo generico e poco
operativo, ma di un soggetto che si percepisce "competente specificamente",
in grado cioè di produrre una precisa prestazione in relazione ad uno specifico
compito/obiettivo atteso da sé o dai suoi partner di ruolo
• un processo che mette il soggetto, o il gruppo, depowered (o a rischio di depowerment),
in grado di recuperare il sentimento del proprio valore, la padronanza della
propria vita, il controllo del proprio contesto a partire da una rielaborazione
della propria condizione di debolezza, alienazione, mancanza di potere, perdita
di speranza (learned helplessness)
approdando ad una condizione di fiducia in sé (learned hopefulness) e nelle sue possibilità.
In un'azione di sviluppo impegnata sia sulle caratteristiche interne dei
soggetti e contemporaneamente su quelle del loro contesto di vita, passiamo ora
a meglio definire il processo di empowerment del soggetto nei termini di un processo di trasformazione e
ristrutturazione della relazione del soggetto con l'ambiente e i suoi attori,
di ridefinizione della propria immagine, attraverso azioni volte a sviluppare:
• la consapevolezza dei gesti, dei
simboli e dei linguaggi che legittimano lo status quo delle relazioni interpersonali
e sociali (Hardy, Leiba O' Sullivan 1998)
• la presa di coscienza (Freire
1967) della relazione tra il vissuto individuale e le forze in gioco nel proprio
contesto ovvero il riconoscimento delle forze che hanno oppresso ed opprimono
i soggetti e che riducono le possibilità presenti nel loro contesto, la possibilità
di vedere i meccanismi alla base della propria condizione di depauperamento
così come i vincoli e le possibilità presenti in sé e nell'ambiente
• la conoscenza dei processi di
attivazione, accesso e costruzione delle risorse chiave quali informazione,
educazione, mezzi finanziari (Katz 1984; Levine, Perkins 1987)
• l'ampliamento delle possibilità,
attraverso il migliore uso delle proprie risorse attuali e di quelle potenziali
acquisibili, che il soggetto può praticare e tra le quali può scegliere;
• la capacità di mettersi in relazione
con il proprio ambiente per produrne una conoscenza critica, riconoscere la
natura degli scambi necessari con esso e tra le persone in esso, ovvero evidenziare
le risorse per raggiungere i propri obiettivi
• il sentimento di potenza rispetto
all'impegno attivo nel procurarsi le risorse necessarie, accrescendo così
la possibilità di controllarle e orientarle a proprio favore
• la capacità di influenzare i sistemi
sociali e politici pertinenti ciò che significa la motivazione a controllare
il proprio campo di azione specifico, modificando la realtà intorno a sé (Moss
Kanter 1977)
• l'integrazione tra presa di coscienza,
accesso ai processi di presa delle decisioni e comportamenti utili al raggiungimento
degli obiettivi prefissati
• la sicurezza di sé, la fiducia
nelle proprie possibilità e capacità che derivano dall'identificazione delle
strategie utili non solo al reperimento delle risorse interne a sé ed esterne (coping), ma anche alla loro messa in
campo, e dalla verifica della loro efficacia. Si tratta di vissuti psicologici
positivi: l'appartenenza alla propria comunità come fonte identitaria, la
padronanza della situazione, la sensazione di poter prendere in mano le redini
della propria vita, il controllo sugli aspetti significativi della propria vita
(Johnson 1993), sul proprio destino e su quello del proprio gruppo (Fisher
1992), il sentimento di potenza e di adeguatezza, di poter partecipare, mettere
in essere azioni intenzionali per raggiungere una nuova condizione di
benessere, prendendo coscienza delle proprie capacità di organizzare e
realizzare il corso di azioni necessario a gestire adeguatamente le situazioni
che si incontreranno.
Tale processo implica un gioco contemporaneo di
autopercezione ed eteropercezione e si realizza non solo attraverso un
significativo impegno personale, un esame di realtà delle forze personali in
campo cui consegue una personale sperimentazione di successo, ma anche grazie
ad un ambiente persuasivo e supportivo che mostri esperienze vicarie di
successo, la possibilità cioè di vedere modelli comportamentali imitabili.
A partire da tali considerazioni teoriche, che hanno costituito il punto d’avvio per trasformarci in ricercatori che tendono al cambiamento, sono stati attivati i due percorsi di ricerca-intervento che hanno concretizzato la nostra “azione” applicativa.